Luca Primavera

Entrare in dialogo sul tema del fine vita, stimolando un approfondimento multidisciplinare sulla legge regionale toscana. Questo l’obiettivo dell’incontro promosso dal Movimento cristiano lavoratori nell’Episcopio di Arezzo il 4 aprile scorso, che ha raccolto ampie prospettive di analisi sul tema. Numerosi gli ospiti intervenuti, tra gli altri, il presidente della Conferenza episcopale toscana card. Augusto Paolo Lojudice, il vescovo di Arezzo-Cortona-Sansepolcro mons. Andrea Migliavacca, il presidente di Mcl Alfonso Luzzi, il vicepresidente generale Mcl Guglielmo Borri e il presidente emerito della Corte costituzionale Cesare Mirabelli. Insieme a quest’ultimo approfondiamo alcuni aspetti della recente legge regionale toscana.

Qual è la sua opinione in merito alla legge toscana sul suicidio assistito?
La premessa è che l’assistenza al suicidio come non punibile penalmente, in alcuni casi molto ristretti e a condizioni che la Corte costituzionale ha determinato, ha degli aspetti che riguardano le garanzie che le procedure devono rispettare. Questa non è una competenza regionale, ma statale, perché si tratta di disciplinare effetti relativi ai diritti fondamentali della persona – e non l’organizzazione sanitaria – una disciplina che necessariamente deve essere unitaria nel Paese. In particolare la Corte ha sottolineato che gli aspetti relativi alle alternative rispetto alla volontà suicidaria, cioè l’uso delle cure palliative e la sedazione continua profonda, in alcuni casi vada impostata. È qui davvero che le regioni che gestiscono il Servizio sanitario nazionale devono provvedere a organizzare questo servizio per consentire percorsi, che se scelti dalla persona, possono indurre a superare le situazioni di disagio, dolore e non ricorrere alla richiesta di suicidio.

Secondo lei esiste un diritto a morire?
Questo è escluso espressamente dalla Corte costituzionale. Le decisioni che ha assunto non sono un’apertura all’eutanasia, ma la non punibilità del suicidio in alcuni casi ed enunciano con chiarezza che esiste per lo Stato un obbligo di garantire la vita e di rispettarne la dignità fino alla fine, che vi è una dignità della vita quale che sia la condizione in cui questa si svolge e che non c’è un assoluto diritto all’autonomia nella scelta e quindi a richiedere una prestazione di questo tipo. Lo Stato garantisce la vita, non eroga la morte.

Il legislatore toscano ha intitolato questa legge “Modalità organizzative per l’attuazione delle sentenze della Corte costituzionale n. 242/2019 e n. 135/2024”. Secondo lei è appropriato parlare di questo provvedimento come di semplici modalità organizzative?
Dal punto di vista delle fonti normative credo che sia necessaria una legge statale nella quale si possa trovare anche la convergenza delle diverse sensibilità. Una soluzione equilibrata, che da una parte affermi e garantisca il diritto alla vita, con tutti gli strumenti che sono necessari, dall’altra, come la Corte costituzionale segnala, se ci si trova in situazioni nelle quali la condizione di vita è mantenuta da trattamenti di sostegno vitale, è una situazione irreversibile, dove può essere esercitato il diritto a rifiutare le terapie, in questi casi, se la persona ritiene che sia intollerabile il dolore che ha il trattamento di sostegno vitale, diventa un elemento che deve essere considerato. L’alternativa è quella di un acceleramento della morte.

Alcuni osservatori hanno parlato della legittimità della cosiddetta “cedevolezza invertita”, che cioè nel momento in cui il legislatore nazionale non interviene è giusto che le regioni possano farlo mettendo in atto una sorta di supplenza. Concorda?
Le decisioni della Corte costituzionale sono in questo caso autoapplicative. Sono condizionate in senso assoluto dall’emanazione di una legge, perché indicano anche le garanzie procedurali che bisogna avere, facendo riferimento a percorsi che già sono previsti tra le due leggi, quello sulla dichiarazione anticipata di trattamento e quello sulle cure palliative. Perciò mi pare che non ci sia neanche l’indispensabilità di una legge regionale perché il sistema funzioni. Allora, quella regionale, è un’incursione che può valere da sollecitazione per il legislatore nazionale, sollecitazione che tra l’altro la Corte aveva posto come esigenza sin dalla prima ordinanza.

C’è stata via via un’interpretazione estensiva del concetto di “trattamento di sostegno vitale” e per esempio oggi anche un catetere vescicale rientra in questa definizione. Alcuni sostengono che questa sia un’invasione di campo sia nei confronti del legislatore che della politica. Concorda?
Non credo. Anzi il rischio è che si arrivi a un ricorso all’ampliamento da parte delle giurisdizioni. Al di là di questo, va detto che la Corte ha detto che una malattia irreversibile, può essere anche una malattia ipercurabile, che dà particolari inconvenienti, o trattamenti fisicamente invasivi, che ricordo, possono essere rifiutati dalla persona.

L’aspetto delle sofferenze psicologiche ritenute insopportabili, come una delle possibili precondizioni per il suicidio assistito, non rischia di essere un criterio difficilmente dimostrabile e troppo soggettivo?
Che ci sia una valutazione di carattere soggettivo è evidente, ma il nodo è che si tratta di trattamenti che la persona non intende assumere e che potrebbe già rifiutare. La morte sarebbe pertanto la conseguenza del rifiuto di tale trattamento. La Corte fa riferimento anche al rapporto tra medico e paziente, alle linee del consenso informato, cioè della illustrazione di quelle che sono le conseguenze di questo atto. Anche questa è una soluzione che a me pare equilibrata. Già Pio XII e recentemente papa Francesco hanno sostenuto che occorre tutelare la vita fino alla sua fine naturale. Quando non vi è proporzionalità tra la cura ed effetti della cura, allora questa si può interrompere. Questo ripeto, va valutato nella concretezza del rapporto tra medico e persona.

La legge non specifica i luoghi dove può essere applicato il suicidio assistito, questo apre anche scenari inediti sull’identità degli ospedali, non trova?
Questo è un aspetto rilevante. La Corte fa riferimento al servizio sanitario nazionale che deve valutare, attraverso collegi competenti dal punto di vista medico se esistono le condizioni per procedere. In secondo luogo offre le garanzie rispetto all’oggettività e alla persona e in terzo luogo quali sono gli strumenti, i medicamenti che possono portare a questo esito. Si tratta di una garanzia pubblica che come per la legge sull’interruzione volontaria di gravidanza evita che si apra una zona grigia di mercato. Tuttavia questo pone degli altri problemi: è un servizio obbligatorio? Nasce un diritto a prestazione? È un interrogativo aperto. Il punto è che le sentenze della Corte costituzionale, non determinano un obbligo del personale sanitario a provvedere. Si va oltre la semplice tutela dell’obiezione di coscienza, dove si delinea un dovere che può non essere assolto in via eccezionale per scelte di coscienza. Il non obbligo invece, significa che non c’è un percorso rispetto al quale l’astenersi debba essere procedimentalizzato.

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