(Foto ANSA/SIR)

Bruno Desidera

Daniel Noboa fa il bis al ballottaggio delle elezioni presidenziali in Ecuador e batte per la seconda volta consecutiva Luisa González. Il presidente uscente, portatore di una proposta politica di destra, liberista in economia (è figlio del maggiore imprenditore “bananero” del Paese) e fautore della militarizzazione e del pugno di ferro per sconfiggere la criminalità, finora con risultati deludenti, numeri alla mano, ha sconfitto nettamente, con un vantaggio di circa 11 punti (55,69% contro 44,31%), la candidata della sinistra vicina all’ex presidente Rafael Correa, capace di imporsi soltanto in due province, nel feudo “correista” del Manabí e in Los Ríos. Noboa ha vinto nettamente a Quito e ha prevalso di misura anche a Guayaquil, dove al primo turno era arrivata davanti la sua avversaria. Netta vittoria del presidente uscente anche nelle province amazzoniche, ad alta presenza indigena.

Un risultato sorprendente dopo il primo turno. L’esito è stato, nel complesso, sorprendente. I due candidati, al primo turno, erano praticamente appaiati e i sondaggi fotografavano una situazione estremamente equilibrata, così come i primi exit poll. Proprio per questo, González non ha riconosciuto la vittoria di Noboa, gridando alle irregolarità e chiedendo il riconteggio. Una richiesta dettata più da un sentimento di frustrazione che da concrete speranze di sovvertire l’esito delle elezioni, viste le proporzioni del successo di Noboa. “Mai – spiega al Sir il prof. Damiano Scotton, padovano di Camposampiero, docente di Relazioni internazionali all’Università dell’Azuay di Cuenca – il Paese era stato polarizzato e diviso in modo così profondo. Come è noto, il Paese nello scorso decennio è stato fortemente segnato dalla lunga presidenza del leader di sinistra Rafael Correa, e le precedenti due elezioni presidenziali sono state caratterizzate dalla polarizzazione tra i sostenitori dell’ex presidente e quelli che erano contro di lui, e che hanno prevalso. Stavolta, la polarizzazione è andata al di là di questa contrapposizione, perché a confrontarsi sono state due linee politiche entrambe estreme e con forti caratteri di populismo”.

Non soltanto la linea di Correa, ma anche quella del giovane presidente uscente Daniel Noboa ha, in pratica, spaccato il Paese, come si era visto con chiarezza al primo turno.

Al dunque, però, “la pancia” del Paese ha preferito dire ancora una volta no a Correa, il cui profilo si stagliava con chiarezza dietro González, e continuare con Noboa, che, del resto, aveva avuto solo un anno e mezzo per provare ad attuare la sua ricetta. Nel 2023, infatti, il mandato del presidente Guillermo Lasso, iniziato nel 2021, si era interrotto dopo le sue dimissioni e si era andati a elezioni presidenziali. La Costituzione del Paese, però, prevede che si voti comunque alla scadenza naturale; da qui, la nuova, ravvicinata campagna elettorale. In questo anno e mezzo il Paese è stato scosso da un’ondata di violenza e terrore senza precedenti. Lo stato d’emergenza proclamato da Noboa ha portato a qualche risultato soltanto per pochi mesi, e dall’inizio del 2025 il numero degli omicidi, soprattutto nelle province del Pacifico, è tornato a salire. I cittadini hanno comunque deciso di dare fiducia al giovane presidente, sulle cui pratiche, spesso ben poco rispettose dei diritti umani, sarà importante vigilare.

La sinistra “tradita” dagli indigeni. Almeno due le chiavi interpretative del successo di Noboa. “Sono state decisive le scelte degli indigeni – prosegue Scotton –. Leonidas Iza, presidente della Conaie, la maggiore organizzazione indigena del Paese, alla guida del partito Pachakutik, che aveva superato il 5% al primo turno, aveva dato indicazione di voto per la candidata della sinistra, ma non tutti i dirigenti dell’organizzazione erano d’accordo.

In cabina elettorale, è emerso con chiarezza lo scollamento tra la dirigenza e la base delle popolazioni indigene, come confermato dal risultato nelle province del territorio amazzonico. Le tensioni tra gli indigeni e Correa, negli anni della sua presidenza, erano, del resto, state molto forti e non facilmente rimarginabili”.

Il secondo aspetto è la presenza di Correa, che si conferma come divisiva nel Paese, al di là di quello che è stato il suo contributo nell’evoluzione dell’Ecuador. Piaccia o non piaccia, dopo la terza sconfitta consecutiva, pare evidente che una proposta progressista potrà affermarsi, in futuro, in Ecuador solo se sganciata dall’eredità dell’ex presidente.

Gli auspici dei vescovi. A tutti i candidati la Conferenza episcopale dell’Ecuador (Cee) ha chiesto di “accettare la volontà della maggioranza e impegnarsi a lavorare insieme, rispettando lo stato di diritto, la divisione dei poteri e la tempestiva alternanza dei poteri”. “È la nostra opportunità, come cittadini, di scrivere, con il nostro voto, una nuova storia per l’Ecuador”, aveva auspicato la Cee, in un messaggio firmato dal presidente, il cardinale Luis Gerardo Cabrera Herrera, arcivescovo di Guayaquil, e dal resto della presidenza. Un auspicio che era, insieme, un appello accorato, finora non raccolto dai contendenti: “L’urgenza del presente esige che torniamo a essere fratelli e amici, liberi dall’odio, dalla vendetta e dai piccoli interessi”, si legge nel comunicato, in cui si esorta a recuperare il senso di fratellanza nazionale. “Non c’è tempo da perdere – avvertono i vescovi –, il bisogno dell’altro è un imperativo etico e politico, non uno slogan elettorale o un manifesto pubblicitario”. Ai futuri governanti i vescovi chiedono di dare priorità alla creazione di posti di lavoro, al miglioramento dei sistemi sanitari ed educativi, alla cura della Casa comune e all’attuazione di politiche che proteggano le famiglie e i più vulnerabili.

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