
Di Nicola Gini
Rami di olivo e militari schierati a presidiare le chiese. Così, in Libano, ci si avvicina alla Pasqua. Da Beirut a Tripoli, alle città e villaggi più piccoli, dove essere cristiani significa manifestarlo in una molteplicità di confessioni. Dai maroniti (quella prevalente in termini numerici) agli armeni, dai melchiti (ortodossi e greco cattolici) ai protestanti, senza dimenticare i cattolici di rito latino e gli armeno-cattolici. Un intrico di fedi: ben 18 le confessioni religiose nel pulsano nel Paese lacerato dalla profonda crisi economica e dalla guerra – i bombardamenti dell’esercito israeliano contro Hamas – che lo scorso autunno ha causato circa un milione di sfollati. A Beirut e a Tripoli nei giorni scorsi sono arrivati i volontari di Frontiere di Pace, gruppo che ha base nella parrocchia di Santa Maria Assunta in Maccio, provincia di Como.
In viaggio Giambattista Mosa, coordinatore del gruppo, affiancato da chi scrive qui: per conoscere sul campo la parcellizzata realtà libanese. Stretta un’efficace sinergia con Mediterranean Hope – il programma della Federazione delle Chiese evangeliche in Italia dedicato alle popolazioni libanese, siriana e palestinese che convivono sulla stessa terra – hanno concluso il loro progetto umanitario con la distribuzione di 6.000 chilogrammi di generi di prima necessità e farmaci.L’obiettivo: aiutare tutti i bisognosi. Il tentativo: praticare una strada di dialogo tra le varie confessioni religiose.Una via possibile? Faticosa, dalla moltitudine di approcci con cui si potrebbe rispondere all’interrogativo. Semplice, mettendosi al passo di padre Quirico Calella, francescano che dal 2016 rappresenta l’Ordine a Tripoli, città libanese di circa un milione di abitanti. Da 59 anni e nove mesi vive il suo ministero sacerdotale in Medio Oriente. E incarna il dialogo interreligioso. “Gesù di Nazareth, il re dei giudei. Ma Gesù è il re di ognuno di noi, di tutto il mondo – le parole scandite da padre Quirico, originario di Cisternino (Puglia) -. Qui il nostro convento esiste da 800 anni. Abbiamo sviluppato un centro sportivo, negli ultimi anni realizzando la copertura di un hangar per poter giocare a calcio sia d’inverno che d’estate quando il clima è umido e afoso. Inoltre, gestiamo un ambulatorio con quattro medici, due infermieri e una farmacista. Seguiamo 500 pazienti. Un centro culturale in cui insegniamo arte e disegno e corsi di turismo. Stiamo completando sei aule di musica e abbiamo la Tau banda. Oltre a organizzare conferenze, proponiamo momenti di confronto con le altre confessioni religiose: ad esempio con i musulmani. L’ambulatorio e il centro culturale si chiamano ‘Francesco e il sultano per il dialogo’.
Le nostre attività hanno la prospettiva di dialogare, di accettare tutti, indipendentemente da chi siano”.
Accoglienza a qualunque confessione religiosa. Missione complessa? “Mi sono sempre proposto nelle parrocchie e nelle scuole miste: a maggioranza cristiana o musulmana. Qui avevamo anche una scuola, purtroppo l’abbiamo chiusa nel 2014. Io sono rimasto qui da solo. Complesso?
Il dialogo è molto semplice, basta usare un codice comune: la tolleranza, l’amore, la fratellanza, accettare gli altri, ognuno nelle sue differenze.
Lo sport, l’arte, la musica sono un linguaggio universale. Almeno per me non è stato difficile invitare qui il vecchio mufti per tutte le celebrazioni religiose e per qualche evento in particolare. Come è stato in occasione dell’800° della nostra presenza a Tripoli.Ascoltiamo il Cantico delle creature: si propone a tutti, a prescindere dalla religione. Quando si loda Dio, lo si loda per tutte le creature. E se si loda Dio per tutte le creature lo si fa anche per tutti gli uomini, che sono nostri fratelli: qualsiasi sia il loro credo.Vogliamo mettere l’accento sull’accettare gli altri, non solo di ogni religione ma chiunque essi siano: anche gli atei. Poi, se la nostra identità ha qualcosa da dire, lo dirà a tutti: perché Cristo è venuto per redimere tutti”.
Rientriamo da Tripoli a Beirut per l’incontro con padre Michel Abboud: 53 anni, carmelitano, presidente di Caritas Libano, al quale Frontiere di Pace ha consegnato una piccola offerta (mille euro), preziosa perché alimenterà tre famiglie locali. “La nostra missione è la preghiera. Madre Teresa di Calcutta dedicava quattro ore di preghiera al giorno. Gesù pregava tanto. Sono presidente di Caritas dal 2020, eletto dall’assemblea dei patriarchi e dei vescovi cattolici in Libano. Qui Caritas esiste dal 1972, nata con la guerra e la conseguente crisi. Oggi copriamo tutto il Libano in 90 centri attivi a livello sociale. Ogni settore corrisponde a un’area geografica con diocesi e parrocchie: i beneficiari ricevono aiuti. Per l’assistenza sociale abbiamo il coordinamento con i parroci. Contiamo dieci centri medici, la gente viene dalla mattina al pomeriggio e garantiamo il servizio dei dottori per consulti medici. Abbiamo anche una clinica mobile: per anziani e persone con disabilità che non possono raggiungerci. Andiamo da loro per organizzare giornate sanitarie con decine di medici. Negli ultimi quattro anni la crisi economica ha creato nuovi poveri: il salario di chi guadagnava 2.000 dollari al mese è sceso a 200 dollari. Vengono da noi diabetici, che non possono permettersi di andare dal medico. Siamo attivi anche con quattro centri per i minori con difficoltà di apprendimento e disabilità mentali. Stiamo lavorando anche con i migranti.
Non hanno nessuno, se non Dio.
C’è un grande lavoro con i rifugiati siriani con Unhrwa, per implementare gli aiuti per loro”.Un moltiplicatore di solidarietà: questa è Caritas Libano. “Aiutiamo la gente a trovare lavoro. Caritas ha 700 operatori in tutto il Libano, pagati; 3.000 volontari, di cui 2.000 sono giovani. Consacrano la loro vita per il servizio volontario. La nostra risorsa è la Provvidenza”.
Caritas si è rivelata fondamentale nella fase emergenziale dello scorso autunno, quando i bombardamenti israeliani hanno colpito il Libano. “Io ho ricevuto 15 persone – continua padre Abboud – avevano le lacrime agli occhi. Gente che ci aiutava con donazioni, diventata povera. Noi siamo ‘obbligati’ a essere accanto a loro. Quando è iniziato il conflitto tra Israele e Hezbollah qui sono arrivate tante persone dal sud. Subito abbiamo offerto scorte di cibo. Per loro abbiamo aperto i centri medici: persone fuggite dal fuoco dei bombardamenti. Noi lavoriamo per tutti senza discriminazioni”.
Così si vive la Settimana Santa. Così ci si approssima alla Pasqua. Pregando per una vera risurrezione dei cuori.
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