
Di M.Michela Nicolais
“Faccio questi viaggi per visitare le comunità cattoliche e anche per entrare in dialogo con la storia e la cultura dei popoli, con quella che è la mistica propria di un popolo”. Così Francesco, il papa che all’inizio del pontificato aveva dichiarato di non voler viaggiare molto, di ritorno dal viaggio dalla Mongolia ha spiegato il senso dei suoi viaggi apostolici, iniziati nel 2013 con il viaggio altamente simbolico a Lampedusa, che poi ne avrebbe richiamato un altro a Lesbo e un altro ancora a Marsiglia, a significare che il dramma dei profughi e dei migranti – nel Mediterraneo, “Mare Nostrum” diventato un cimitero – è stato ed è rimasto sempre al centro delle priorità del suo pontificato, a partire dalla volontà di leggere il mondo e i suoi dilemmi dalle periferie, perché è questa l’ottica giusta per abbracciarlo in tutta la sua complessità e denunciarne le sue disuguaglianze e “inequità”. “Quando parlo di periferia, parlo di confini”, aveva dichiarato Bergoglio da cardinale in un’intervista rilasciata a Cárcova News, rivista popolare prodotta in una villa miseria argentina: “Normalmente noi ci muoviamo in spazi che in un modo o nell’altro controlliamo. Questo è il centro. Nella misura in cui usciamo dal centro e ci allontaniamo da esso scopriremo più cose e, quando guardiamo al centro da queste nuove cose che abbiamo scoperto, da nuovi posti, da queste periferie, vediamo che la realtà è diversa.
Una cosa è osservare la realtà dal centro e un’altra è guardarla dall’ultimo posto”.
Tema, questo, ripreso anche nell’Evangelii gaudium, il suo documento magisteriale programmatico, e reso tangibile con la scelta – senza precedenti nella storia della Chiesa – di aprire la Porta Santa del Giubileo della misericordia a Bangui, durante il viaggio nella Repubblica Centrafricana.
Scelte controcorrente, come l’indimenticabile immagine di Auschwitz, all’interno della Gmg di Cracovia, quando il 29 luglio 2016 ha attraversato – da solo e in silenzio, primo papa a non pronunciare una parola – la porta di ingresso del campo di sterminio di Birkenau, avviandosi su una vettura elettrica al Blocco 21 per sostare in preghiera silenziosa davanti al muro dove i nazisti compivano le fucilazioni, dopo aver salutato 12 superstiti e reso omaggio alla cella di padre Massimiliano Kolbe. Un silenzio orante che ha parlato più di mille parole, e che ha evocato la sosta anch’essa silenziosa al muro di Betlemme, che divide ebrei e palestinesi, un fuori programma del viaggio in Terra Santa. Ferite aperte, quelle delle divisioni tra i popoli, come in Corea, a Sarajevo, in Sri Lanka o in Azerbaigian. E in Messico, a Ciudad Juarez, al confine con gli Stati Uniti, dove ha detto messa a 80 metri dalla barriera di filo spinato: muri che diventano ponti, per la capacità di Bergoglio di toccare le ferite della gente e di indicare ricette pe risanarle.
Viaggia Papa Francesco, e lo fa soprattutto per incontrare le comunità cattoliche dello “zero virgola”,
agli occhi del mondo insignificanti ma preziose per la loro testimonianza e la resilienza che in alcuni casi diventa martirio. L’attenzione al fiuto del “santo popolo di Dio”, alle culture indigene come quelle dei popoli nativi dell’Amazzonia, ai poveri, ai rifugiati, agli scartati, ricorrono nei gesti nelle parole del papa “venuto dalla fine del mondo”, che non abbandona mai il sogno della fratellanza umana al di là di ogni differenza, al centro dell’omonimo Documento siglato ad Abu Dhabi e consegnato come viatico ad ogni Capo di Stato ricevuto in udienza. Su tutto, il sogno della pace, che nel memorabile viaggio in Iraq ha preso corpo con un virante appello ai leader religiosi a
“smilitarizzare i cuori”.
Perché la guerra è sempre una sconfitta e la pace un traguardo mai raggiunto una volta per tutti: “Sta a noi, umanità di oggi, e soprattutto a noi, credenti di ogni religione, convertire gli strumenti di odio in strumenti di pace. Sta a noi esortare con forza i responsabili delle nazioni perché la crescente proliferazione delle armi ceda il passo alla distribuzione di cibo per tutti. Sta a noi mettere a tacere le accuse reciproche per dare voce al grido degli oppressi e degli scartati sul pianeta: troppi sono privi di pane, medicine, istruzione, diritti e dignità! Sta a noi custodire la casa comune dai nostri intenti predatori. Sta a noi ricordare al mondo che la vita umana vale per quello che è e non per quello che ha, e che le vite di nascituri, anziani, migranti, uomini e donne di ogni colore e nazionalità sono sacre sempre e contano come quelle di tutti!”. Nel settembre del 2024, il viaggio più lungo del pontificato, in Asia e Oceania – quest’ultima visitata per la prima volta – nel corso del quale dove ha esortato a “contrastare l’estremismo e l’intolleranza”, “isolare le rigidità, i fondamentalismi e gli estremismi” e scongiurare conflitti e guerre, “alimentati anche dalle strumentalizzazioni religiose”. “L’esperienza religiosa sia punto di riferimento di una società fraterna e pacifica e mai motivo di chiusura e di scontro”, l’auspicio espresso nel discorso pronunciato nella moschea Istiqlal, la più grande moschea asiatica.
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