DIOCESI – Lectio delle Sorelle Clarisse, del Monastero Santa Speranza.

Abbiamo lasciato Pietro a Gerusalemme, lontano da Gesù Crocifisso, un Pietro che, dopo averlo proclamato Cristo e Messia, rinnega il suo Signore per ben tre volte pur di salvarsi la vita.

Il Vangelo di oggi ce lo presenta chiuso nel cenacolo, impaurito e timoroso per la sua sorte dopo la morte di Gesù.

La prima lettura, invece, tratta dal libro degli Atti degli Apostoli, ci descrive la moltitudine di malati che veniva portata con lettucci e barelle nelle piazze perché «quando Pietro passava, almeno la sua ombra coprisse qualcuno di loro» perché fossero guariti.

Il Vangelo ci dice che anche gli altri discepoli sono chiusi tra quattro mura per paura delle ritorsioni dei giudei nei loro confronti ma poi, nella lettura degli Atti degli Apostoli, li ritroviamo fra il popolo, ad operare segni e prodigi.

Tommaso, uno degli apostoli, non è presente quando Gesù appare in mezzo ai suoi amici; non crede alle loro parole quando gli dicono «Abbiamo visto il Signore!», ed ha bisogno di toccare con mano il segno dei chiodi nelle mani del suo Signore e il segno della lancia nel costato per credere.

Cosa dice a noi tutto questo? Che attorno a Gesù, ieri come oggi, non c’è una comunità di eletti che si contrappone o, meglio, si eleva sulla massa sterminata delle persone che devono essere convertite. Discepoli di Gesù, ieri come oggi, siamo tutti noi, uomini e donne provati dal dubbio, dalla paura, dalla fatica di non vedere, uomini e donne che parlano di Gesù come uno che ha vinto la morte ma che, otto giorni dopo, si trovano a porte chiuse, nascosti, timorosi di farsi riconoscere come suoi amici.

In tutto questo una certezza: il desiderio che il Signore ha dei suoi, ha di noi, è più forte di ogni isolamento, prudenza, ripensamento, paura, miseria, caduta, non c’è porta chiusa che possa trattenere il Risorto dall’essere tra noi, con noi. È Lui che, ogni giorno, ogni volta, tutte le volte, entra attraverso le nostre tante e variegate porte chiuse per “stare in mezzo”, per raggiungere e stare nella parte più buia di ciascuno di noi, permettendoci, ogni volta, tutte le volte, di ritrovare il centro della nostra esistenza e mettendo da parte la paura e tristezza della prova e della morte.

Ciascuno di noi sperimenta le difficoltà della fede, perché realmente essa è un cammino di crescita da compiere, e un processo di crescita, di maturazione è sempre faticoso. Ma in mezzo alla nostra quotidiana fatica e al nostro quotidiano desiderio di credere, viene sempre Gesù, è Lui stesso che si fa avanti, ogni volta, è Lui che tende le mani, ogni volta, è Lui che ci dona la sua pace, ogni volta.

La pace è qui con voi, è iniziata, dice Gesù ai suoi discepoli chiusi nel cenacolo, dice Gesù, oggi, a ciascuno di noi. L’Amore Risorto, ossia quello più forte della morte, non è più solo il Dio con noi ora, ma il Dio in noi, e lì, in questo “in noi”, porta pace. Al centro delle mie paure, delle mie debolezze, delle mie depressioni, delle mie disperazioni, egli entra a porte chiuse e dona la pace da sempre invocata, e che, ogni volta, tutte le volte, dopo ogni caduta, torniamo ad invocare.

Questo primo saluto di Gesù ai discepoli che si erano dileguati nell’ora della sua passione e morte dice a loro ma dice soprattutto a noi che ogni debolezza, ogni caduta, ogni paura non rende buio il futuro e non fa venir meno la relazione con il Signore. Un saluto, «Pace a voi!» che ci fa scoprire ogni volta perdonati e ci incoraggia ad amare in modo analogo a Lui, cioè a perdonare, a farci dono reciproco di quel perdono capace di riscattarci da tutte le tenebre che ci abitano.

È nel perdono, infatti, che ogni miseria diventa luogo di amore più profondo e ogni relazione viene rinnovata.

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