Tutti abbiamo delle figure ideali. Le immaginiamo e ce le coccoliamo. E come le pensiamo, ci piacerebbe averle accanto. Esiste, nella fantasia di tanti, un prete “ideale”. Inutile negarlo. Molti hanno incontrato sacerdoti proprio come li desideravano e ne sono grati. Altri ne hanno nostalgia. Sì, perché occorre ammetterlo, tutti vorremmo avere come parroco un sacerdote alla don Matteo. Nasce forse da qui, dall’esperienza vissuta o da quella mancata, la fortuna della serie televisiva, giunta alla decima edizione, che la Lux Vide propone su Rai 1 al giovedì, dalla scorsa settimana, ancora per dodici serate.
La veste svolazzante di don Matteo è meravigliosa. Indica la premura, la solerzia, la sana inquietudine che anima un sacerdote in costante trepidazione per le anime a lui affidate. Questo prete che si aggira per le vie di Spoleto in sella alla sua bicicletta nera sbattuta contro i muri perché non c’è neppure il tempo per appoggiarla per bene, ricorda tanto un altro prete famoso per la sua tonaca lisa.
Don Matteo non è catalogabile, intendiamoci. Lo stesso Terence Hill ammette di non ispirarsi a nessuno e fa benissimo a tenere questa linea. Creerebbe solo torti e non avrebbe senso scimmiottare altri. Quel prete dagli occhi azzurri è “ideale “ed è bene che resti così.
Ma preti di quella pasta ce ne sono, ed è giusto non dimenticarlo.
Vedere volare quella veste, rimasta la stessa da 15 anni, mi fa venire in mente don Oreste Benzi. Anche l’attenzione per l’umanità sofferente, per i carcerati, per gli esclusi, per i feriti dalle vicende della vita mi ricordano tanto la cura che il sacerdote riminese aveva per le persone spesso sole e dimenticate. Non aveva importanza il rango, la posizione sociale, il reddito. Non c’era distinzione: chi gli capitava davanti aveva sempre la sua piena considerazione, proprio come fa ben intuire don Matteo.
Non c’è mai una parola di condanna, né di giudizio. Solo comprensione, amore, vicinanza e, soprattutto, la gioia del Vangelo, dell’esperienza cristiana che riempie la vita e la fa diventare un dono che non si può tenere per sé. Don Benzi per stare collegato con tutte le sue comunità sparse nel mondo aveva due cellulari e viaggiava spesso in aereo. Bruciava un’auto nel giro di otto-dieci mesi, macinando oltre trentamila chilometri ogni trenta giorni. Don Matteo si limita al piccolo territorio della cittadina a lui affidata e si muove solo su due ruote a pedali. Ma la tensione è la medesima: quella di farsi prossimo a chi ha bisogno. Così diventa inevitabile abbracciare un padre che non riesce a dialogare con il figlio, dire alla escort del primo episodio interpretata da Belen che lei vale molto di più e ricordare a un omicida che “la vera rivoluzione nella storia è Dio che non si stanca mai di perdonarci” e “la cosa più difficile è perdonare se stessi”.
“Do you love Jesus?”, ripeteva don Benzi, di notte, anche in pieno inverno, alle prostitute lungo la statale Adriatica, in Romagna. Portava la sua parola di conforto, di vicinanza, di speranza per una vita migliore. “Se vuoi, puoi, qua non ti giudica nessuno. Vieni, è bello. Dai, ci stai?”. Ecco, è questo che il pubblico, sempre numerosissimo, avverte nella figura ideale di don Matteo:
un prete di cui ci si può fidare, uno che non giudica mai. Anzi, comprende, incoraggia, aiuta, sostiene, si fa presente. Uno come tanti ne vorremmo.
Solo alla maniera di don Matteo, dunque, prete ideale? No, anche alla maniera di don Benzi e di tutti quelli che ogni giorno, nel silenzio, si spendono per curare le ferite e scaldare i cuori.
Pastori con l’odore delle pecore, come chiede papa Francesco. Con la tonaca lisa e le scarpe consumate.
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