lavoroDi Nicola Salvagnin

Un dato tra i tanti, che testimonia però un grande cambiamento della e nella società italiana: l’Osservatorio ministeriale delle partite Iva racconta che a novembre ben un quinto delle nuove aperture è stato fatto “da un soggetto nato all’estero”. Una percentuale enorme, stante il fatto che la popolazione di origine straniera non raggiunge certo il livello del 20% tra i residenti in Italia: significa che chi è arrivato qui ha grande voglia di intraprendere; significa soprattutto una mutazione enorme rispetto a una trentina d’anni fa.
Vi ricordate? Erano i tempi dei primi “extracomunitari”, li chiamavamo così, intendendo soprattutto i maghrebini che vedevamo arrivare dalle nostre parti soprattutto d’estate. Sbarcavano nel Mezzogiorno per le raccolte di ortofrutta, ma si fecero notare soprattutto lungo le spiagge romagnole e venete come venditori ambulanti di accendini, monili, teli da spiaggia, insomma cianfrusaglie.

E i mass media li battezzarono con il franco-napoletano con cui si presentavano ai bagnanti nei lidi: vu’ cumprà.

Da allora, di acqua sotto i posti dell’immigrazione – e dell’integrazione – ne è passata a fiumi. Ora i residenti in Italia sono oltre 5 milioni, provenienti soprattutto da tre Paesi: Romania (oltre un milione 100mila), Albania (quasi mezzo milione) e Marocco (450mila), con significative comunità di ucraini, cinesi, moldavi, filippini… Risiedono quasi tutti nel Centronord: il lavoro sta soprattutto lì. Hanno dapprima occupato i posti che gli italiani snobbavano (badanti, colf, muratori, operai generici, avventizi nell’agricoltura); poi, col crescere sia delle comunità che della permanenza nel nostro territorio, stanno facendo il salto di qualità.

Sicuramente a primeggiare tra le nuove partite Iva ci sono i cinesi, popolo che ha il commercio nel dna.

A Prato sono ormai una potenza, molti bar italiani fanno ora un caffè alla cinese, per non parlare della ristorazione e del commercio ambulante. Molte partite Iva “straniere” le troviamo poi nella logistica, nei trasporti, nel turismo, nel piccolo artigianato (si pensi a parrucchieri ed estetiste), nei servizi alla persona.
Un vantaggio per tutti: significa piena integrazione nel tessuto economico – e quindi sociale – italiano; significa molto spesso passare dall’anonimato e dal “nero”, al pagamento di stipendi, di imposte, di contributi; significa mettere radici solide, ben lontane da quei vu’ cumprà che tramontavano appena la bella stagione volgeva al termine. Avere un’attività economica in un posto significa rivolgere attenzioni ben superiori a come quel posto funziona, viene amministrato, ai problemi che ha. Significa sentirsi a tutti gli effetti parte di quel posto.
Certo, non sono tutte luci. Non mancano le ombre di condizioni lavorative ben differenti dalle nostre (certi negozi cinesi sono aperti 365 giorni all’anno, con orari appunto “cinesi”); di sacche di precarietà mascherata dalle partite Iva; di frodi ed elusioni che noi italiani peraltro conosciamo benissimo. Ma significa anche la volontà di molti immigrati di prendere il destino nelle proprie mani, di provarci, di fare qualcosa di più grande, di più duraturo, di più redditizio. Altro sentimento che noi italiani, sparsi in ogni angolo del mondo da secoli, conosciamo alla perfezione.

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