Uno studente italiano su quattro non sa la matematica. I principali mezzi di comunicazione hanno presentato così i risultati riferiti al nostro Paese dello studio Ocse-Pisa diffuso il 10 febbraio scorso dall’agenzia parigina. I dati, che si riferiscono a una rilevazione del 2012 su 4,5 milioni di quindicenni in diversi continenti, presentano in realtà un quadro in evoluzione: dal 2003 ad oggi la percentuale di allievi in difficoltà in una serie di competenze basilari – quelli che il rapporto definisce i “low performers” – è infatti diminuita in modo significativo.
Non c’è, però, da esultare: il numero di giovani italiani con scarse prestazioni in matematica, lettura e scienze resta superiore alla media, anche se di poco. Fanno peggio di noi, in Europa, solo Grecia e Portogallo. A collezionare i voti più bassi sono soprattutto gli immigrati, gli allievi delle scuole professionali e quelli provenienti da famiglie in condizioni socio-economiche svantaggiate.
Il momento critico continua ad essere il passaggio dalle scuole medie al primo anno delle superiori, dove si registra un alto numero di respinti.
La diagnosi dell’Ocse individua un mix di cause combinate tra loro: antiche carenze trascinate negli anni, un orientamento poco efficace, la presenza di docenti impreparati dal punto di vista pedagogico. E scarso “homework”, lo studio domestico, ovvero i famigerati compiti a casa.
L’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico fa seguire alle cifre un pressante invito a mettere l’insuccesso scolastico tra le priorità dell’agenda politica, evidenziando le ricadute delle pagelle basse sulla sfera sociale e produttiva. Secondo le sue stime, se nel 2030 tutti i 15enni italiani raggiungessero la sufficienza nelle discipline esaminate nel rapporto, nel lungo periodo il Prodotto interno lordo del nostro Paese potrebbe impennarsi di diciotto punti.
Al di là dell’attenzione alla crescita del Pil, la lunga lista di suggerimenti che provengono dall’Ocse mette il dito nella piaga soprattutto là dove chiede un maggior coinvolgimento dei genitori e delle comunità locali. Il numero significativo di “low performers” – afferma lo studio – deve spingere a un approccio integrato che veda collaborare il mondo politico, le famiglie, gli insegnanti e gli studenti stessi, modellato sulla realtà nazionale e su quelle locali.
Sulla rottura del patto educativo tra scuola e famiglia e tra quest’ultima e lo Stato ha usato parole forti anche papa Francesco, nel novembre scorso, a conclusione del congresso mondiale sull’educazione cattolica. È un fenomeno grave – ha spiegato – “perché porta a selezionare i super-uomini, ma soltanto con il criterio della testa e soltanto con il criterio dell’interesse”, attirando così l’attenzione sul legame esistente tra i fenomeni di rigida selettività e di esclusione presenti in molti sistemi scolastici e il prevalere delle istanze economiche su quelle della crescita umana integrale delle nuove generazioni.
È un dato di fatto che in Italia la dispersione scolastica resti un’emergenza che passa spesso inosservata.
Negli ultimi 15 anni, quasi 3 milioni di ragazzi iscritti alle scuole superiori statali non hanno completato il corso di studi. E non si tratta di un fenomeno limitato ad alcune regioni, anche se persistono differenze tra il Nord e il Sud del Paese. Il cocktail fatale che porta all’abbandono dei banchi di scuola è fatto di numerosi ingredienti: un alto numero di assenze dalle lezioni, il calo delle motivazioni, la mancanza di sostegni adeguati fra le mura scolastiche e di stimoli provenienti dalla famiglia. Anche questa sfida non si potrà vincere se, insieme alla qualificazione dei docenti e alla diffusione di progetti pilota, non si punterà su una reale alleanza educativa tra genitori, insegnanti e ragazzi.
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