La memoria non è solo un meccanismo, un assieme di byte, un cerca su wiki e poi scrivi, o, peggio che mai, copia e incolla. Anche perché il professore può fare la stessa cosa a partire dal testo finale, quello dello studente, per arrivare alla fonte iniziale. Aveva ragione un grande filosofo, Henri Bergson, che per opporsi al meccanicismo materialista sostenne che il tempo non è un distendersi di segmenti tutti uguali; e aveva ragione uno –mica uno qualsiasi- che era andato a sentire le sue lezioni, Marcel Proust, quando scriveva che la memoria non è quella volontaria, il tentativo di recuperare l’immagine esatta: la memoria che conta è quella delle intermittenze del cuore, che si riempie di affettività, che trasforma il tempo e lo rende interiore, umano, e per questo, non è un gioco di parole, eterno.
Il 66,8 per cento degli studenti italiani, sono dati ufficiali dell’Ocse, usa il pc in orario scolastico, quasi il 29 per cento se ne serve per fare i compiti a scuola. Certo, l’uso sarà in parte sotto il controllo di docenti, ma il problema è anche e soprattutto a casa.
Non è solo il fatto di fare i compiti con l’ausilio delle enciclopedie on line, che non garantiscono la veridicità e soprattutto la scientificità dei dati, che preoccupa. Il problema è il tempo, le interrelazioni, il calo di interesse per la ricerca. Perché se io trovo subito una parola da mettere in un compito, un minuto dopo l’ho dimenticata, e con lei tutto il bagaglio di interrelazioni significative con il mondo che quella parola porta con sé. Se Termopili o caduta dell’impero romano diventano semplici parole da cercare, copiare, incollare, senza riflessione, va perduta tutta la necessità di quelle parole.
E la storia del Novecento ci ha insegnato che ricordare può salvarci dai mostri.
Ma poiché il net sta creando danni alla nostra memoria, ecco che, per compensazione ci propongono recuperi archeologici del passato, come il Rischiatutto di quel Mike Bongiorno che il compianto Umberto Eco aveva additato come l’abc dell’ovvietà, dell’appiattimento e della banalità. La memoria però non è ripescare cose morte. Lo abbiamo visto – ma ce lo debbono insegnare i film e i libri apparentemente per ragazzi? -, in “Il piccolo principe” di Mark Osborne, assai libera traduzione dell’omonimo racconto di Saint-Exupéry: la rosa – chissà se l’autore del Nome della rosa avrà sussultato nell’accorgersene – esiste sempre. Non importa che sia appassita sotto la campana nella quale l’avevamo chiusa nel tentativo di renderla immortale. Non è l’immortalità fisica che conta. E’ la memoria diventata sentimento, perché vissuta, perché sofferta, perché annaffiata dalle lacrime del dolore di non poterla fermare e di averla persa e poi aver accettato tutto questo, che conta davvero.
È la memoria affettiva, fatta di carne e anima, a valere, non quella cercata in due secondi due su wiki e copiata.
Neanche quella delle foto dei cibi che si stanno per mangiare, neanche i copia e incolla, neanche i “buongiorno amici” su face. C’è una persona in carne ed ossa, con un nome e cognome, unica al mondo, perché dotata di memoria e di sensibilità, a cui dire “buongiorno”, che sarà salva, e felice, perché saprà di essere l’unica a cui abbiamo scritto quel buongiorno, in qualsiasi modo, certo, via mail, o con una vecchia lettera, o detto per telefono, o con lo smartphone, (ma di persona no?). I Trionfi di Francesco Petrarca, l’eterno cantore dell’amore per Laura, iniziano con uno dei più bei incipit della storia della letteratura: “Per la dolce memoria di quel giorno”. Se lo ricordò per tutta la vita, quel mattino d’aprile all’ora prima nella chiesa di santa Chiara ad Avignone. Se avesse scattato un selfie non sarebbe rimasto nulla. La memoria meccanica avrebbe cancellato l’essenza del ricordo, il continuo trasformarsi dell’immagine antica in qualcosa di vivo e di nuovo.
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