La sera del 6 marzo a Roma tre giovani, più uomini che ragazzi, hanno deciso di passare una serata da sballo a base di droga, sesso e violenza. Un “divertimento” che è una discesa nell’abisso, dove alla fine resta un corpo martoriato. Sappiamo che troppe serate le assomigliano, anche se per fortuna non sempre si concludono con un morto. I due sopravvissuti sono ora in galera con l’accusa di aver ucciso il loro “amico” Luca Varani di 23 anni. Non sembrano pentiti di quello che hanno fatto, anzi. Con lucidità criminale si accusano a vicenda e raccontano particolari sempre più orribili per avvalorare i loro alibi.
Una storia così non poteva non conquistare le prime pagine dei giornali e occupare tutti gli spazi mediatici. Soprattutto nelle piazze virtuali dei social, dove si contano più sciocchezze che virgole.
Per la verità la notizia è esplosa quando è cominciato a scorrere il fiume di dettagli sulla serata da macellai e quando è diventato più evidente il torbido contesto in cui si è svolta la vicenda. Per almeno 24 ore era sembrato uno dei tanti delitti, magari da imputare a qualche immigrato in cerca di soldi. Invece no. Appena si è percepita l’efferatezza di quel che era avvenuto e le indagini hanno portato ai due arrestati e a un mix di sesso, depravazione e droga, è esplosa l’attenzione mediatica.
La notizia – dunque – non sta nell’omicidio né nel fatto che l’abbiano commesso due giovani, per altro conoscenti se non proprio amici della vittima. In una vicenda ricca di mille chiavi interpretative ha prevalso quella più da trivio. Minuziose descrizioni di colpi, di ferite, di urla e di rapporti sessuali sono fiorite come un campo di papaveri a maggio. Le cronache si sono trasformate in reportage autoptici, in un’escalation senza limiti. Ha provato a ricordarne qualcuno il Garante per la privacy. Mercoledì 9 marzo ha diffuso un comunicato in cui invitava i giornalisti, di fronte a un fatto di sicuro interesse pubblico, a mantenere “sobrietà, responsabilità e sensibilità” e a evitare “accanimenti informativi”, “astenendosi dal riportare dettagli eccessivi e limitandosi a profili di stretta essenzialità”. Parole al vento.
La gara a scavare in quel groviglio di sangue e sesso è andata avanti senza alcun pudore, fomentata e alimentata da quanto andava nel frattempo maturando su Facebook. Ma tutto questo è ancora giornalismo?
Immaginiamo le risposte: la gente ha diritto di sapere; conoscere anche i dettagli più crudi aiuta a impedire altri fatti analoghi; lo share dei programmi in cui se ne è parlato dimostra l’attenzione del pubblico. Tutte giustificazioni nobilissime. Peccato che siano un po’ false. Da tempo i giornalisti si sono dati regole precise per rispettare la dignità delle persone: vittime, assassini o semplici lettori che siano. Regole dimenticate o meglio, messe da parte, perché in una società sempre più incline all’osceno diventano stonate. Dalla pubblicità alle immagini, alle parole, tutto mira a offendere la naturale bellezza che è nel creato e negli altri: per questo l’osceno rischia di diventare la condizione di normalità che uccide ogni residuo senso etico. Ma l’osceno affascina, è trasgressivo, apre le porte a una visione pornografica della vita, senza inattuali divieti sessuali. In molte persone oggi lo sguardo è diventato pornografico, privo di ogni pudore perché non c’è più responsabilità. Le colpe sono sempre degli altri e l’agire di ciascuno è sottratto a qualsiasi vaglio etico.
C’è una manovra a tenaglia nei confronti dell’etica, parte da economia e tecnologia.
La crisi ha fatto abbassare la soglia di eticità di ciascuno rendendo leciti comportamenti fino a ieri inaccettati. Per salvare il lavoro, per continuare a portare il pane a casa si sono moltiplicati i compromessi e molti sono diventati inconfessabili. È la crisi, bisogna sopravvivere. Ad accelerare la caduta etica, la convinzione maturata con lo straordinario sviluppo tecnologico dell’ultimo decennio, secondo cui tutto ciò che è tecnicamente possibile è anche lecito. E questo vale soprattutto nel campo della comunicazione. Chi si preoccupa più di chiedere il permesso per scattare una foto? Il mio smartphone me lo consente, allora è lecito farlo. Sui social posso dire quel che voglio, allora vado a ruota libera.
Su questi binari una società si avvia alla decadenza e al tramonto di ogni senso di umanità. A cominciare dalla pietà verso un giovane sgozzato a 23 anni in una serata di “divertimento”.
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