Pensioni

Di Luigi Crimella

I pensionati in Italia sono 16 milioni e 533 mila, secondo gli ultimi dati ufficiali Inps e Istat. Di questi 7,6 milioni sono uomini e 8,7 milioni donne. Il “ricambio” pensionistico dell’anno 2014 parla di 675mila decessi e 542mila nuovi trattamenti, con una minor spesa riferita ai defunti di 10,4 miliardi e nuove pensioni da erogare per 7,5 miliardi. L’importo medio degli assegni per gli scomparsi è stato di 15.356 euro annui, mentre i neo-pensionati entrati in carico costano mediamente 13.965 euro. Da qui in avanti lo Stato pagherà circa 1.000 euro annui in meno a ciascun nuovo pensionato rispetto a quelli defunti. Le pensioni italiane, del resto, pur costando 270,469 miliardi, mostrano un livello unitario piuttosto contenuto: ben il 68,29% dei trattamenti hanno un ammontare lordo mensile inferiore a 1.443 euro; il 23,06% va da 1443 a 2.405 euro lordi; il 7,7% si colloca tra 2.405 e 5.291 euro lordi e un minuscolo 0,95% dei pensionati percepisce trattamenti tra i 5.291 e i 24.050 euro (circa 160 mila persone in tutto). Si va da pensioncine di 500-600 euro netti a maxi-trattamenti di 15-16 mila euro mensili. A chi troppo, a chi troppo poco, verrebbe da dire.

Critiche alla “Fornero” e arrivo della “busta arancione”: un mix esplosivo. In questi ultimi mesi è andata crescendo nel dibattito politico italiano l’attenzione sull’allungamento della vita lavorativa prodotto dalla riforma “Fornero”, giudicato ormai eccessivo un po’ da tutte le parti politiche e dalla maggioranza dei commentatori.

Appare ormai chiaro che, con le generazioni dei padri e delle madri costrette a stare al lavoro fino a 65-66 se non a 67 anni di età per poter maturare il diritto alla “pensione di vecchiaia”, o comunque ad avere almeno 42 anni e 6 mesi di anzianità lavorativa gli uomini e 41 anni e 6 mesi le donne, per ottenere il trattamento di quiescenza, i posti di lavoro per i giovani non si liberano quasi più.

Le contestazioni verso la riforma Fornero piovono da tutte le parti: destra, sinistra, centro, parti sociali. E aumenteranno nel prossimo mese di aprile, quando nelle case di 7 milioni di italiani, a partire dai lavoratori più giovani, arriverà la famosa “busta arancione” annunciata dal presidente dell’Inps, Tito Boeri. A quel punto, i giovani scopriranno che, avendo iniziato a lavorare piuttosto tardi, mediamente verso i 25-28 anni, potranno andare in pensione non prima dei 68-70 anni, e per giunta con pensioni piuttosto basse, se non da fame. Lo stesso sarà per I lavoratori di mezza età, che potranno “lasciare” solo dopo 42-43 anni di lavoro e a malapena raggiungeranno il 60-65% degli ultimi stipendi.

Il crollo delle entrate da pensionati sarà per tutti molto pesante, con impatti sociali gravi per chi non provvederà a costruirsi una pensione privata “di scorta”.
Quali sono le proposte di riforma in campo. Di fronte a questa realtà, sia il Governo Renzi, sia i partiti di opposizione si sono cimentati con proposte di riforma volte da un lato ad aumentare l’occupazione giovanile e dall’altro ad alleviare gli effetti della riforma Fornero. Intanto si è proposto di estendere per altri due-tre anni l’ “opzione donna”, che prevede l’anticipo del pensionamento con 57 anni e 3 mesi di età e 35 di contributi, ma col passaggio totale al sistema contributivo (15-20% in meno sui trattamenti). Qualcuno ha proposto una identica “opzione uomo”, però senza grosso successo. L’ex-ministro Damiano ha ipotizzato pensioni anticipate con 62 anni di età e 38 di contributi, recuperando 3-4 anni rispetto alla riforma “Fornero”: costo previsto minimo 10 miliardi. La Lega Nord, sensibile ai lavoratori precoci, ha proposto la “quota 100” (esempio 44 anni di anzianità e 56 di età), con anticipo di 6-7 anni sull’attuale regime, oltre a un assegno di 1.000 euro per tutti con 40 anni di anzianità e a seguire la pensione spettante: costo diversi miliardi. L’ex-ministro Giovannini aveva proposto il “prestito pensionistico”, 700 euro al mese dallo Stato ai più vicini alla pensione, per liberare posti per i giovani: costo almeno 1 miliardo. Il ddl Santini-Ichino del luglio 2015 prevedeva l’Asdi (una nuova indennità di disoccupazione) per i 55enni seguita da un “assegno pensionistico anticipato” (Apa): diversi miliardi di costo. Il senatore Sacconi ha proposto due ddl: il primo con l’azienda che paga parte del riscatto di laurea per svecchiare il proprio personale e il secondo con una rivisitazione della proposta Damiano, diversamente modulata ma analoga nei costi per lo Stato. Lo stesso Governo sembra stia studiando l’anticipo a 63 anni con tagli dal 3 al 12-15% dei trattamenti rispetto ai 67 anni attuali. E poi rimangono aperte le salvaguardie degli “esodati”, giunte alla settima edizione e già costate 11 miliardi.

Flessibilità in uscita, d’accordo, ma… Quale “morale” trarre da tutte queste idee, generose, geniali addirittura, ma costose?

Siamo tutti stretti come in una morsa: vorremmo più giovani al lavoro e più anziani (60enni) in pensione. Ma non ci sono le risorse.
Il presidente dell’Inps, Boeri, parla di “flessibilità sostenibile”: cioè uscite con almeno 62-63 anni e 42 anni di anzianità, però estendendo a tutti il montante contributivo: in pratica chiede di far sparire definitivamente le residue “anzianità”. Insomma, la “coperta è corta”: se tiri da una parte escono i piedi, dall’altra rimangono fuori le spalle. In una parola, le pensioni sono la prova che il debito pubblico è troppo elevato, la spesa pubblica troppo alta, e se non si risparmia i sacrifici continueranno, e la “Fornero” pure.

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