Allarme rosso nel Nagorno-Karabakh, la regione nel sud del Caucaso contesa da Armenia e Azerbaigian. Nella notte tra il 1 e il 2 aprile sono ricominciati gli scontri e il numero delle vittime aumenta di ora in ora. Se ne contano già centinaia e ci sono purtroppo anche molti civili. Si tratta dell’escalation più violenta da quando, nel 1994, l’armistizio firmato dai governi armeno e azero aveva ufficialmente chiuso le ostilità costate la morte di 30mila persone. Non si riuscì però a giungere ad un vero e proprio accordo di pace sullo status dell’enclave e da allora la stabilità nella Regione ha vissuto in uno stato di estrema fragilità.
Basta quindi poco per riaccendere la tensione ed entrambe le parti si sono accusate a vicenda di aver violato la tregua e sferrato il primo attacco.
La comunità internazionale guarda con profonda preoccupazione agli scontri scoppiati e anche il nostro ministero degli Esteri ha richiamato “tutte le parti all’immediato rispetto del cessate il fuoco e ad astenersi da ulteriori atti di ostilità”.
La Chiesa armena “piange” le vittime cadute. Anche la comunità cattolica è stata pesantemente colpita.
Nel villaggio di Thalisch una famiglia composta da una coppia e la nonna è stata massacrata. “Dopo averli uccisi – racconta monsignor Raphael Minassian, ordinario per gli armeni cattolici dell’Europa Orientale – hanno anche tagliato le orecchie”. I cattolici piangono anche la morte di un ragazzino di 12 anni, ucciso nel cortile della scuola, e altri due bambini che sono stati gravemente feriti. Sua Santità Karekin II, Supremo Patriarca e Catholicos di Tutti gli Armeni del mondo, ha lanciato un “appello alla comunità internazionale, in modo particolare ai Paesi che sono chiamati a dirimere il conflitto, di intervenire per far cessare le indebite azioni senza fine dell’Azerbaigian, contro il Nagorno-Karabakh”.
“La situazione nella regione è instabile da più di 20 anni”, osserva Aldo Ferrari, docente di geopolitica e ricercatore dell’Istituto per gli studi di politica internazionale (Ispi) di Milano. E questa instabilità è dovuta al fatto che “20 anni fa non si è arrivati ad una vera pace ma soltanto ad un armistizio”.
“Ci sono stati molti scontri negli anni passati ma questo sembra essere il più grave in assoluto”.
Perché adesso? Perché – risponde il professore – l’ Azerbaigian può aver voluto dare “una prova di forza” per riportare la regione occupata dagli armeni sotto la sua sovranità. Oppure l’attacco potrebbe essere stato sferrato per distogliere l’attenzione della popolazione azera dai problemi interni (crisi economica a causa del crollo del prezzo del petrolio) e indirizzarla verso la politica estera, ricompattandola. “Ma questo vorrebbe dire – osserva Ferrari – che la responsabilità dell’attacco sia dell’Azerbaigian, cosa che francamente è possibile ma non certa perché come sempre avviene in queste circostanze c’è una guerra di informazione o disinformazione tra le parti che rende difficile capire se e cosa sia realmente avvenuto”. Una cosa invece è sicura:
si tratta – dice Ferrari – di “una situazione potenzialmente pericolosissima”. Lo scacchiere dei rapporti tra gli Stati coinvolti nella crisi è delicatissimo.
“Con un Medio Oriente destabilizzato, una Russia che appoggia l’Armenia con la quale ha una vera e propria alleanza e la Turchia che a sua volta appoggia l’Azerbaigian. Potenzialmente quindi la situazione è critica. Al tempo stesso però – prosegue Ferrari – si spera che, come già è avvenuto in passato, proprio la gravità delle possibili implicazioni facciano fermare i due contendenti”.
Sarebbe assurdo prospettare un acuirsi del conflitto proprio in quella zona, “anche se – osserva Ferrari – non è escluso. Basta guardare a ciò che è accaduto in Siria, in Libia, in Iraq. Di assurdità ce ne sono state tante anche negli ultimi anni”. “Mi sentirei però di essere ottimista – aggiunge il professore – perché gli Stati coinvolti non dovrebbero essere o sentirsi sufficientemente forti e autonomi per promuovere una guerra con le implicazioni che poi questo conflitto potrebbe avere”.
Il tutto sta avvenendo alla vigilia del viaggio di Papa Francesco in Armenia. “Un viaggio – rileva il prof. Ferrari – che ha un margine di rischio se da qui al momento della sua partenza, questa situazione di conflitto non verrà risolta. Ma spero che francamente si tratti di un aggravamento provvisorio della situazione e che torni la ragionevolezza da entrambe le parti”. “Il Papa – conclude l’esperto – ha un peso politico rilevante ovunque vada. In Armenia la sua popolarità è altissima e il suo viaggio è atteso con una enorme aspettativa anche per la chiarezza con cui ha parlato del genocidio armeno che ha avuto una grande ricaduta mediatica”.
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