PinnaDi Claudio Turrini

Sono passati 51 anni da quel comunicato dei cappellani militari della Toscana in congedo in cui bollavano la “cosiddetta obiezione di coscienza” come “un insulto alla Patria e ai suoi caduti”, oltre che “estranea al comandamento cristiano dell’amore ed espressione di viltà”. Oggi li farebbero visitare da uno psichiatra. Ma in quegli anni trascinarono davanti ad un tribunale don Lorenzo Milani, nel silenzio complice di gran parte del mondo cattolico.

Se oggi ci sembrano fatti paradossali, confinati nel passato, è grazie a persone che hanno testimoniato la verità a qualunque costo.

Come Pietro Pinna, morto ieri a Firenze, dove viveva da tempo, all’età di 89 anni. Lui che a 21 anni, nel 1948, influenzato dalle idee di Aldo Capitini, con il quale avrebbe poi fondato il Movimento Nonviolento e dato vita nel 1961 alla marcia della pace Perugia-Assisi, fu il primo italiano a rifiutare di indossare la divisa, non in nome di una fede (come facevano i testimoni di Geova), ma per le sue convinzioni etiche, maturate nel corso della guerra. Quella scelta gli costò 18 mesi di carcere. E nel 1973 era stato di nuovo condannato per direttissima per vilipendio delle Forze Armate per aver affisso un manifesto di lutto il 4 novembre.

Pietro Pinna ha sempre tenacemente testimoniato la sua ferma convinzione che

“non si può sconfiggere la guerra senza eliminarne lo strumento che la rende possibile, gli eserciti”.

Come ci ricorda in una nota il Movimento Nonviolento “oggi, i giovani, che tanto a cuore stavano a Piero, che si affacciano all’esperienza del servizio civile, sanno – o dovrebbero sapere – che la loro esperienza di difesa civile non armata e nonviolenta è possibile soprattutto grazie all’impegno di una vita di Pietro Pinna”.

(*) “Toscana Oggi”

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