C’è sorpresa e attesa mista a preoccupazione tra gli operatori cattolici che lavorano accanto ai poveri nelle Filippine dopo gli esiti delle elezioni del 9 maggio: il nuovo presidente è ora Rodrigo Duterte, 71 anni, controverso personaggio noto per il pugno duro contro la criminalità e la corruzione e per gli slogan populisti da “uomo forte”. Tra i suoi intenti, quello di riformare la Costituzione per dare più poteri al governo. La stampa internazionale lo definisce “il Trump delle Filippine”, in patria lo chiamano “il giustiziere”, perché durante il suo lungo mandato di sindaco a Davao, nell’isola di Mindanao, non ha esitato ad usare forze speciali per affrontare bande e spacciatori, tanto che le organizzazioni per i diritti umani hanno denunciato oltre 1400 omicidi extragiudiziali, tra cui 132 minori. Sprezzante con i vertici della Chiesa cattolica, perfino con il Papa (durante la visita nelle Filippine lo accusò con termini volgari di aver congestionato il traffico di Manila), durante la campagna elettorale si è perfino vantato di aver ucciso degli uomini e non ha risparmiato dichiarazioni sessiste. Nell’unico Paese cattolico dell’Asia, un arcipelago di oltre 7.000 isole che sfiora i 100 milioni di abitanti (di cui il 94% si dichiara cattolico), la Chiesa è ora disorientata dai risultati delle elezioni ma assicura comunque “una collaborazione vigile” con il governo e la disponibilità a lavorare insieme per il bene comune.
Le reazioni dei vescovi. I vescovi filippini, che prima avevano esortato i fedeli a fare discernimento tra i candidati con profilo morale discutibile, si sono subito espressi in una nota post-elettorale firmata dal presidente Socrates B.Villegas, arcivescovo di Lingayen-Dagupan, dichiarando che non intendono interferire nella politica né aspirano “ad alcun incarico”. La Conferenza episcopale filippina invoca “saggezza” sugli eletti e chiede attenzione in particolare nei confronti dei bambini, delle donne “in situazioni di sfruttamento”, delle popolazioni indigene che rimangono ancora “emarginate” e “tutti i filippini che vivono fuori dalle aree urbane” rimasti esclusi dallo sviluppo economico del Paese: in questi ultimi anni il Pil ha visto infatti una crescita del 6% ma con la disoccupazione al 6,5% e il 26% della popolazione che rimane ancora sotto la soglia della povertà, specie nelle zone rurali. Il cardinale Luis Antonio Tagle, arcivescovo di Manila, ha pubblicato sul sito della sua diocesi, dopo le elezioni, una preghiera in tagalog, e durante un’omelia in cattedrale ha ricordato che ogni vittoria “porta con sé anche un carico di responsabilità”, “perché chi vince deve rappresentare i sogni del popolo e il bene comune”. Qualche speranza in più è stata espressa dal cardinale Orlando Quevedo, arcivescovo di Cotabato, una diocesi nella stessa isola dove Duterte è stato sindaco, Mindanao, nota alle cronache per il sanguinoso e decennale conflitto tra ribelli comunisti e movimenti islamici e separatisti. Pare che Duterte abbia buoni rapporti con i ribelli, forse per questo il cardinale Quevedo ha sottolineato l’urgenza di colloqui di pace, invitando a “considerare la Chiesa non come un ostacolo o un nemico ma come una forza positiva e un partner per lo sviluppo nazionale”.
Nei seggi anche le Caritas. La presenza della Chiesa nel processo elettorale non è stata solo di tipo politico, con le prese di posizione istituzionali. “Ha avuto anche un ruolo di controllo in tutti i seggi tramite delle Commissioni apposite, perché le operazioni si svolgessero nella trasparenza – spiega dall’isola filippina di Panay Matteo Amigoni, operatore di Caritas italiana che lavora a sostegno delle Caritas locali con la moglie Stefania e i tre figli -. Anche le varie Caritas erano presenti. Alcuni direttori, appena appresi i risultati, hanno fatto battute sul rischio del ritorno della legge marziale, come durante la dittatura di Marcos. Però subito dopo hanno tratto un sospiro di sollievo, perché la vicepresidente eletta è Leni Lobredo, e non il figlio di Marcos, che pure era candidato”. Amigoni non condivide l’epiteto di “Trump delle Filippine” affibbiato dalla stampa internazionale a Duterte. “E’ diverso da Trump – dice -. Chi lo ha votato ha espresso la volontà di un cambiamento perché stanco della corruzione, del familismo e delle dinastie politiche che da anni governano il Paese. La sua campagna elettorale è stata tutta centrata sulla sicurezza, e in effetti a Davao la situazione è migliorata durante i suoi mandati di sindaco”. Certo, ammette, “sorprende che, in un Paese a maggioranza cattolica, i suoi metodi e le sue dichiarazioni brusche contro la criminalità non siano stati considerati un problema”. Su quanto questa vittoria possa influire sulla lotta alla povertà non è ancora chiaro: “Siamo in attesa di capire e di vedere cosa succederà. Un pò di preoccupazione c’è”.
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