Un puzzle in cui ogni tessera ha la sua collocazione: infanzia, giovinezza, età adulta, vecchiaia. Ma oggi quel puzzle sembra impazzito e i conti non tornano più. Colpa della longevità di massa, conquista della società del benessere e dei progressi della medicina, ma anche terra di mezzo senza fine che costringe a riscrivere la grammatica intergenerazionale, educativa e sociale. “Essere longevi oggi non significa avere ‘più vita’ bensì avere ‘più vite’, abitare un laboratorio in cui si è sempre giovani ricomincianti, dilettanti senza scadenza destinati a non diventare adulti e a non invecchiare, ma questo toglie alla morte il valore di questione ultima e impedisce di assumersi la responsabilità connessa all’età adulta”, avverte don Armando Matteo, docente di teologia morale presso la Pontificia Università Urbaniana a Roma e autore del volume “Tutti muoiono troppo giovani” (ed. Rubbettino 2016).
“Il fatto che troppi adulti non facciano gli adulti – ci spiega – sta riscrivendo il paradigma dell’umano e costituisce un serio problema per le dinamiche culturali, sociali e politiche, ma anche per la trasmissione della fede”.
In una società che invecchia a colpo d’occhio ma nella quale tutti sembrano voler restare perennemente giovani, per Matteo,
“il vero buco nero è proprio la morte dell’adulto,
l’irresponsabile investimento di molti over 40 in un perenne giovanilismo costantemente alimentato (e insoddisfatto) dalle logiche del mercato e della cultura mediatica”. Non si vuole pensare alla vecchiaia come tempo di maturità: “Oggi si parla di tutto senza pudore, anche delle nostre relazioni e abitudini sessuali; l’unica domanda tabù che ancora mette in imbarazzo, è ‘quanti anni hai’, alla quale spesso si ribatte: e tu quanti me ne dai?’”.
Ma questo nostro tempo innamorato della giovinezza, ama i giovani? “Non direi. Li invidia, non lascia loro spazio e li mantiene ‘congelati’ in una sorta di perenne stand-by, volontariamente e involontariamente”. Volontariamente “per non farsi usurpare posizioni acquisite”; involontariamente perché, “venuta meno l’asimmetria necessaria al gesto educativo,
questi stagionati Peter Pan sono più preoccupati di volere bene ai figli che di volere il loro bene”,
non chiedono loro di crescere ma ne spianano costantemente la strada azzerandone così capacità di sacrificio e di autonomia. “Oggi i bambini sono iperprotetti da genitori ‘spazzaneve’ e/o ‘amuchina’, compiaciuti in ogni esigenza, iperstimolati, ma con il rischio concreto di essere, di fatto, paradossalmente abbandonati a se stessi”.
Senza adulti, insomma, non ci sono genitori, e senza genitori i figli non diventeranno mai adulti. Un cane che si morde la coda. E la Chiesa, pur con le dovute differenze, non fa eccezioni: “Anche qui – e Matteo sorride – si è imposto un certo giovanilismo e non sempre si coglie l’urgenza di riservare i giusti spazi a chi giovane lo è veramente, forse per non voler iniziare a immaginare la propria uscita di scena, forse per timore di progetti o iniziative nuove”.
La longevità sfida e mette in discussione anche l’evangelizzazione e l’organizzazione dei sacramenti. La questione, “interpella la Chiesa in modo sostanziale e simbolico e le chiede una nuova riflessione perché questo ‘eternizzare’ la vita nella sua forma giovane tende a fare venir meno il bisogno di religione e di vita eterna”. Della “liquidità” anagrafica in ambito pastorale un esempio per tutti è la cresima, il cosiddetto “sacramento dell’età adulta’” per la quale, afferma, “nessuno sa più quale sia l’età giusta”.
Il problema vero non è indicare ai ragazzi un modello di adulto credente cui ispirare la propria crescita nella fede, ma un modello di adulto. Dove cercarlo?”.
“L’aiuto – sostiene don Matteo – ci viene dal modello di umanità e adultità compiuta di Gesù, mai astratto, capace di simpatia ed empatia, di accendere ogni uomo e ogni donna che incontra. Il modello riproposto a Firenze”. E anche dall’invito del Papa nell’Evangelii gaudium “a creare o ricreare comunità vere, vivibili, gioiose, liberanti. Spazi di comunione e di condivisione, anzitutto di preghiera”. Per il sacerdote,
la vera “urgenza pastorale” è “la riscoperta della preghiera”.
La Chiesa – insiste – da un lato dovrebbe modellare i suoi tempi sui ritmi di vita delle persone; dall’altro non può continuare ad interessarsi di tutto: la sua missione deve tornare ad essere quella di nutrire la fede delle persone e di educare”. Ma servono un approccio e un linguaggio adeguati ai cambiamenti, “anche a quelli legati alla longevità di massa”. Su questo, aggiunge, “molti adulti di oggi forse si attendono una parola profetica: i genitori vorrebbero essere all’altezza del loro compiti e proprio nelle nostre comunità ecclesiali potrebbero trovare sostegno nell’esercizio della loro adultità e responsabilità genitoriale”.
“La politica, l’economia, i poteri forti – conclude Matteo – avallano il mito del giovanilismo perché hanno bisogno di imbecilli e non esiste nessuno più imbecille di chi, superati i 40 – 50 anni, pensa di essere ancora giovane e fa di tutto per mantenersi in questa condizione. Si pecca contro la vita”. E pure contro l’intelligenza, anch’essa dono di Dio.
Allora la sfida per la Chiesa diventa duplice: nutrire la fede delle persone e aiutarle a ragionare di nuovo con la propria testa recuperando l’autoconsapevolezza di sé e la visione di futuro. E non è cosa da poco.
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