(ZENIT – di Salvatore Cernuzio)
Procede con lentezza Bergoglio mentre, da solo, entra a piedi sotto il cancello di Auschwitz. L’ombra della scritta sbilenca Arbet Macht Frei, simbolo dell’inizio della fine di chi la vedeva scendendo da un treno, si riflette sul terreno sterrato dove il Papa muove i suoi passi con il capo rivolto verso il basso e in totale silenzio.
Un silenzio che mantiene lungo tutta la visita, durata poco meno di due ore, che viene rispettato anche dalla premier Beata Maria Szydlo che accoglie il Pontefice a metà campo e lo saluta, in ginocchio e con il baciamano, senza proferire parola; un silenzio rispettato dai gendarmi che si danno indicazioni con le mani e dagli inviati dei diversi media che sussurrano sottovoce le loro dirette.
Una scelta mirata, quella di Bergoglio, di non dire nulla durante la sua visita. Quale parola, in effetti, potrebbe rendere l’idea di quell’orrore? Francesco sceglie infatti la via dei gesti, come il bacio ad una delle travi della struttura utilizzata per le impiccagioni o il capo poggiato sul freddo muro della Piazza dell’Appello. È a ridosso di questo muro che, per un periodo di due anni – dall’autunno 1941 al 1943 – gli uomini delle SS uccisero centinaia di migliaia di persone con un colpo in testa.
Ed è di fronte a queste pietre che il francescano polacco Massimiliano Kolbe, esattamente 75 anni fa, scelse di sacrificare la propria vita a favore di quella di un padre di famiglia condannato a morte. “Prendete me”, disse alla guardia che selezionava i dieci prigionieri del Blocco 11 da uccidere come punizione alla fuga di un loro compagno. Bergoglio, seduto su una panchina tra gli alberi, si sofferma per circa 15 minuti in preghiera silenziosa quasi a voler riflettere a fondo sul gesto – cristiano, molto più che eroico – del frate.
Kolbe fu poi fatto morire di stenti dai nazisti nella cella 18 sotterranea del Blocco 11, non per nulla chiamata “Cella della fame”. È qui che avviene uno dei momenti più toccanti dell’intera visita del Papa: nella penombra data da una piccola finestra sbarrata, il Santo Padre si siede da solo e si immerge in una profonda orazione.
In quella stanza, sembrano ancora risuonare le parole di San Massimiliano al suo carnefice che gli iniettava l’acido fenico per accelerarne la morte: “Lei non ha capito nulla della vita. L’odio non serve a nulla, solo l’amore crea!”. Di lui rimangono anche alcuni graffiti, tra cui una croce davanti alla quale il francescano recitava le sue preghiere. Il Papa accarezza quelle pareti e guarda la lapide che commemora quel sacrificio e la candela lasciata in dono da Giovanni Paolo II durante la sua visita storica del 1979.
Una candela la dona anche Bergoglio posandola sul muro delle fucilazioni: gliela consegna, accesa, uno dei dieci superstiti venuti a salutarlo e che il Papa abbraccia con sobrietà uno ad uno. Tra questi c’è anche la signora Helena Dunicz Niwinska, ex violinista deportata ad Auschwitz che proprio domani compie 101 anni.
Prima di congedarsi, il Santo Padre, fuori dalla cella di padre Kolbe, firma anche il Libro d’Onore sistemato su un piccolo tavolo di un corridoio. Qui aggiunge due righe in spagnolo: “Senor tem piedad de tu pueblo. Senor, perdón por tanta crueldad!” (in italiano: “Signore abbi pietà del tuo popolo. Signore, perdona tanta crudeltà”).
Percorrendo gli ultimi chilometri con una vettura elettrica, Francesco sale poi in macchina per spostarsi a Birkenau, il campo di concentramento conosciuto anche come ‘Auschwitz 2’ costruito nel 1941 dai prigionieri sovietici per il sovraffollamento del primo campo, nei pressi del villaggio di Brzezinka da cui gli abitanti furono sfrattati e le case distrutte.
Birkenau, con i suoi 173 ettari di prato e le 300 baracche in legno e mattoni, fu teatro della “soluzione finale”, lo sterminio di massa che i nazisti realizzarono sistematicamente attraverso le camere a gas. Avvelenati dai residui di pellet e di Zyklon B, i corpi dei prigionieri – ebrei, ma anche russi, polacchi, rom – venivano gettati nei forni crematori e ridotti in cenere. Queste sono ora raccolte dentro delle urne di marmo in cui, in varie lingue, si augura che: “La loro anima riposi in pace”.
Erano quattro i forni costruiti a Birkenau, tutti furono fatti saltare in aria dai tedeschi che volevano nascondere i loro crimini. Tra le macerie del II e III crematorio, nel 1967 fu eretto il monumento internazionale a ricordo delle vittime del campo, risultato di un concorso internazionale al quale parteciparono architetti polacchi e italiani.
Il complesso si erge alla fine delle rotaie che partono dalla ‘Porta della morte’. È da lì che il Pontefice entra su una vettura scoperta, percorrendo tutto il rettilineo di circa 1 km. Il silenzio osservato finora è rotto dagli applausi e da un neonato che piange. Ancora accolto dal ministro Szydlo, il Papa si dirige verso la piattaforma composta da vari elementi che alludono a sarcofagi e lapidi, da cui spicca una torretta simboleggiante il camino del crematorio.
L’attenzione del Vescovo di Roma si concentra sulle stele commemorative poste davanti al monumento: tutte recano la stessa scritta ma in 23 lingue diverse, quelle usate dai prigionieri nel campo. Ovvero: “Per sempre lasciate che questo posto sia un gridio di disperazione e un avvertimento per l’umanità dove i nazisti uccisero circa 1,5 milioni di uomini, donne e bambini, per lo più ebrei, provenienti da vari paesi d’Europa. Auschwitz-Birkenau 1940-1945”.
Arrivando all’ultima stele il Papa ancora una volta si ferma a pregare, prima posa una lampada decorata da uno stemma in argento e una base in legno di noce tornito, ispirata al reticolato del campo di concentramento. Intanto nell’aria riecheggiano le note di un kaddishintonato dal rabbino capo della Polonia sul Salmo 130, il De Profundis, lo stesso che il parroco don Stanisław Ruszała, pastore di Markowa, legge subito dopo in polacco.
L’ultimo gesto è ancora un abbraccio, quello del Papa ad un gruppo di ‘Giusti tra le Nazioni’: 22 uomini e donne, ormai anziani, che misero a repentaglio la propria vita per salvare quella degli ebrei perseguitati e che per questo ricevettero tale onorificenza. Essa è simboleggiata da una medaglia dorata che i ‘Giusti’ mostrano al Papa, il quale attraverso ancora un intenso silenzio riesce ad esprimere tutta la sua gratitudine.
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