Dobbiamo trovare le parole giuste. In mezzo alle tante pronunciate. E le prime sono: non siamo in Paradiso. I terremoti – come altre sventure, personali o collettive – ce lo ricordano. Con la violenza di uno schiaffo sulla bocca, la violenza di una tempesta che scompiglia le vite, i pensieri. Che porta via l’estate che non vorrebbe finire. Un temporale che ci ricorda: questo non è un posto per spensierate vacanze. Da sempre i terremoti e le altre catastrofi naturali rendono pensosi gli uomini. Nulla è così tremendo come il dolore innocente causato da fenomeni che sembrano dipendere da nulla. Dalla natura, si dice. E si aggiunge: dalla umana incuria. Giusto, si indaghi, si corregga, si punisca. Ma non sono ancora queste le parole che dobbiamo cercare. Infatti, resta lo scandalo, inaccettabile. Di fronte al quale non si sa cosa dire.
Eppure dire bisogna, e bisogna parlare, bisogna trovare le parole. Come ha fatto il Papa alla udienza di mercoledì scorso, mettendo da parte le parole dei discorsi e cercando le parole della preghiera.
Dire, come troppi fanno, che di fronte a queste tragedie non si sa cosa dire, significa consegnare queste tragedie alla insignificanza, a nessun acquisto di consapevolezza. L’uomo deve trovare le parole sempre, perché le parole sono il segno di un rapporto vivo e cosciente con la realtà.
E anche quando si resta in silenzio, lo si fa perché il silenzio è una grande parola. Una parola speciale, che dice tutto il rispetto, la vicinanza. Una parola che ha la misura dell’abisso che contempla. Questo tipo di silenzio, non a caso, si accompagna con certe parole. Quelle che dobbiamo trovare, e che siano più umane, più vere delle sole parole di solidarietà e di vicinanza. Intorno a noi vediamo che spesso si resta invece in un silenzio vuoto, insignificante, paralitico. Che poiché non può durare a lungo allora viene sostituito da parole ovvie, o della cronaca. Ci si getta addosso le parole della cronaca, spesso inutilmente ridondante, insistita, patetica. Che cerca, alzando le onde della emozione rapida a insorgere e rapida a svanire, di coprire il fatto che non sappiamo cosa dire. Invece dobbiamo cercare cosa dire, almeno noi cristiani dobbiamo cercare parole che non siano quelle che possono dire tutti: vicinanza, solidarietà…Cose giuste, ma in un certo senso ovvie. E che si rivolgono ai vivi, non affrontano il buio nodo della questione, non parlano del cuore dello scandalo.
Da secoli siamo dentro un modo di pensare che ci afferra tutti e che ci impedisce quasi di tenere presente una cosa semplice: no, non siamo in Paradiso. Troppi pensieri, troppe filosofie, troppe idee politiche, troppe illusioni hanno preteso di cancellare questo dato di esperienza elementare: qui non siamo in un posto perfetto, non siamo del tutto a casa.
Poi arrivano i terremoti e ce lo ricordano. I poeti più grandi hanno sempre ascoltato questo avvertimento. Come Laopardi, o Baudelaire. Lo sanno anche coloro che senza aver scritto capolavori recitano il Salve Regina: “in questa valle di lacrime…” dice la preghiera degli umili. Cioè dei realisti, dei veri intelligenti. La dimenticanza di questa evidenza, tra l’altro, ha generato una specie di reazione pari e contraria. Coloro che bruscamente si svegliano dalla illusione che questo posto sia il Paradiso, spesso reagiscono pensando che allora sia l’inferno, un posto maledetto, uno schifo in cui ci si divide tra fortunati e sfortunati, sperando di capitare dalla parte migliore. Alla ingenua illusione o utopia che questo posto sia il Paradiso (o che basti qualche ritocco per realizzarlo) fa da contraltare il nichilismo di chi considera tutto una fregatura da cui difendersi e basta. Lo stesso sviluppo della tecnologia in questo frangente ci invita a essere realisti: un cuore di cane o di uccello “sente” il terremoto prima dei nostri più sofisticati strumenti. E poiché lo sviluppo non è neutro forse dobbiamo chiederci perché la tecnologia si sviluppa nella direzione dell’intrattenimento con giri vorticosi di denaro e non altrettanto in direzione della sicurezza. Emergono tante domande e occorreranno le risposte. Ma dobbiamo trovare altre parole, che valgano di fronte ai vivi e di fronte ai morti. Che non eludano la questione. Le hanno pronunciate durante i funerali di molte vittime ad Ascoli. In quel che era un funerale di Stato, ma soprattutto era un funerale cristiano, con la croce appesa davanti agli occhi di tutti.
Chi ha fede e chi non ha fede patisce lo stesso dolore, lo stesso scandalo.
Francesco, il santo, lodava Dio per le sue creature. E sapeva che si tratta di creature imperfette. Sapeva che il sole, la luna, le stelle sono creature meravigliose, segno della potenza creatrice di Dio, ma sapeva anche che nella natura esiste la lebbra, la malattia, il disastro. Francesco non pensava che fossimo in Paradiso. Per questo pregava e si rivolgeva all’Altissimo. Sapeva che l’unica letizia sta nel rapporto con Lui, non nel benessere in una specie di paradiso terrestre o nel ripararsi in un bunker contro tutto. Le parole giuste non sono le uniche da dire. Se ne devono e possono dire tante altre. A volte è spettacolare, commovente la capacità di compagnia che in certi momenti le parole, anche le mezze parole, ci fanno in momenti tragici. In tutte le civiltà il lutto è vissuto anche come momento di ritrovo, di conversazione. I banchetti seguono i funerali. E dunque di parole se ne stanno dicendo tante. Ma senza le parole giuste, tutte le altre suonano un poco vuote, un poco distratte. E anche il silenzio, se non ha dentro la coscienza – pure come grido, quasi in bilico tra bestemmia e preghiera – delle parole che stiamo per dire, che dobbiamo dire. Quelle che il Crocefisso ha portato nel mondo e ci invita a dire, anzi di più, ci sostiene a dire avendole pronunciate nel punto di dolore massimo, innocente:
Padre nostro, siamo tuoi, nelle tue mani…
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