OspedaleGiovanna Pasqualin Traversa ed Emanuela Vinai

La brutta pagina di cronaca scritta all’ospedale di Saronno, con medico e infermiera, compagni anche nella vita, che avrebbero deliberatamente provocato la morte di pazienti a loro affidati, ha aperto un ampio dibattito sulla sicurezza nei luoghi di cura. E se il pronto soccorso della struttura lombarda sotto indagine ha visto la caduta libera degli accessi,la diffidenza ha visto serpeggiare da Nord a Sud del Paese una domanda che è un tarlo: ci si può fidare ancora degli ospedali? E del medico?“Rispondo ancora sì”, afferma senza esitazioni Roberta Chersevani, presidente della Fnomceo, la Federazione nazionale degli ordini dei medici chirurghi e degli odontoiatri, che motiva: “Per il rapporto speciale che si delinea nella relazione di cura, per il tipo di professione che come nessun’altra porta due esseri umani ad un contatto così intenso: l’uno che affida il bene più prezioso, quale la vita e la salute, e l’altro che accetta”. Il battage mediatico si ripercuote prima di tutto sui pazienti, stante che la risonanza enorme di questi fatti “che sono ancora sotto la lente di chi è deputato ad indagare”, amplificata dalla “voglia di sensazionalismo dei media”, fa sì che “l’ansia e l’incertezza che le persone ammalate possono accusare è enorme”. E anche il personale sanitario si ritrova sotto pressione. “Per qualche scheggia impazzita – commenta Chersevani – ci sono migliaia di medici, che lavorano, tanto, con passione e dedizione, scordandosi spesso di come questa professione sia stata penalizzata in questi anni di crisi”. Per fare chiarezza: su quali meccanismi di controllo e prevenzione possono contare i pazienti quando entrano in ospedale? “Il risultato del lavoro in ospedale è valutato in primis da quelli che ci lavorano accanto, dall’esito delle cure, dalla soddisfazione del paziente e dei suoi familiari – spiega la presidente Fnomceo -. Esiste poi un sistema di risk management che valuta non solo i contesti in cui possono essere stati fatti degli errori, ma anche il percorso che ha portato all’errore. E’ prevista la rilevazione, la segnalazione e la valutazione di eventi sentinella, di errori , di quasi-errori (near-miss), valutando le cause e garantendo la natura riservata e confidenziale delle informazioni raccolte”.Il grande richiamo è però prima di tutto al Codice di Deontologia,di cui Roberta Chersevani tiene a evidenziare due principi cardine: l’articolo 7 “In nessun caso il medico abusa del proprio status professionale” e l’articolo 17 “Il medico, anche su richiesta del paziente, non deve effettuare né favorire atti finalizzati a provocarne la morte”.
No a “empirismo diagnostico e terapeutico”. La sicurezza dei pazienti in ospedale, e più in generale la salute e il processo di cura, “è un bene comune e un diritto inalienabile”, e “poiché dipende dall’interazione delle molteplici componenti che agiscono nel sistema”, la questione “deve essere affrontata attraverso l’adozione” di “un adeguato governo clinico”. Ne è convinto Antonio Corcione, presidente della Società italiana di anestesia, analgesia, rianimazione e terapia intensiva (Siaarti) che ha di recente elaborato il documento “Linee propositive per un diritto alla relazione di cura e delle decisioni di fine vita”. Nel richiamare il manuale “Sicurezza del paziente e gestione del rischio clinico” prodotto nel 2009 dal ministero della Salute con la Fnomceo e l’Ipasvi, Corcione sottolinea: “E’ urgente istituire un governo clinico che controlli l’errore a qualsiasi livello professionale, oggettivando le logiche di trattamento e proteggendo il paziente dall’empirismo diagnostico e terapeutico”.Con riferimento al cosiddetto “protocollo Cazzaniga”, è impensabile, chiarisce, l’applicazione da parte di un medico di un protocollo “proprio”.Quest’ultimo costituisce infatti “uno schema di comportamento predefinito” che “formalizza la sequenza delle azioni” da compiersi “per conseguire l’obiettivo dato, comune a tutte le figure professionali coinvolte”, anche se “non può prescindere, in senso assoluto, dalla pratica clinica quotidiana e dalla esperienza professionale dell’ anestesista rianimatore acquisita nel corso degli anni”. Gli anestesisti, chiamati erroneamente in causa in vicende come questa quali figure in grado di “prolungare” o “interrompere” la vita, non dispongono di un proprio codice deontologico, ma seguono le regole comuni a tutte le figure professionali mediche. Controlli seri e strutturati ma non solo:casi come quello di Saronno si prevengono anche con “un’accurata e frequente rivalutazione e selezione psico-attitudinale del personale medico e paramedico impiegato nelle aziende sanitarie”.Dal presidente della Siiarti l’invito, infine, a “non dimenticare come l’anestesista rianimatore sia coinvolto ogni giorno in attività pressoché eroiche che comportano la salvaguardia e la tutela della salute del paziente, soprattutto, ma non solo, nelle condizioni più critiche”.
Costruire una cultura della sicurezza. Per Barbara Mangiacavalli, presidente della Federazione nazionale collegi infermieri (Ipasvi), “il problema vero è costruire una cultura della sicurezza, mettere cioè gli operatori e le aziende nella condizione di condividere meccanismi reali e procedure che rendano davvero operativo ciò che è sulla carta”. Dell’ospedale, assicura, ci si può fidare: “è un luogo che garantisce la massima professionalità e assistenza ai pazienti. Non possono essere singoli casi a mettere in dubbio la dedizione e la competenza di migliaia di professionisti”. In caso di anomalie “la sorveglianza spetta all’azienda e ai singoli responsabili delle attività e dei reparti”; questi ultimi “dovrebbero intervenire in modo assolutamente tempestivo”. Di fronte a fatti che sembrano “un film dell’orrore” – e per i quali il codice deontologico prevede la sospensione dall’attività professionale e, una volta emessa la sentenza, l’eventuale radiazione dall’Albo -, non solo“si deve agire contro chi li ha commessi ma anche verso chi li ha consentiti. Inutile nascondersi dietro un dito: i controlli non dovrebbero guardare in faccia nessuno.Evidentemente nessuno ha visto tempestivamente ciò che stava accadendo e, una volta visto, nessuno – di quelli che avrebbero dovuto e potuto – ha ritenuto di intervenire”. Un’omertà inaccettabile: “se è in ballo la salute dei pazienti affidati alle cure della struttura e dei suoi professionisti, non esistono giustificazioni nemmeno davanti a un’ipotesi, a un sospetto”. Per fortuna “un’infermiera coraggiosa c’è stata e grazie a lei la presunta spirale di follia si è interrotta. Lì hanno prevalso il senso del dovere, la coscienza di una deontologia professionale che mette davanti a tutto – anche a minacce ricevute e a possibili successive ritorsioni – gli assistiti, ma anche il coraggio di chi sa di essere nel giusto. Ora questa infermiera va protetta e tutelata, e la Federazione e il Collegio di cui fa parte – assicura Mangiacavalli – non la lasceranno sola”. I controlli, ribadisce a conclusione, devono essere strutturati e obbligatori, evitando però che “controllore e controllato si sovrappongano”. Controlli “sia preventivi sia di argine a fatti che spesso si fa finta di non vedere”. E la richiesta “viene proprio da chi sa di dare il massimo per la salute dei pazienti e non vuole che nessuno possa vanificare il suo lavoro o nutrire sospetti su eventuali inadempienze”.

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