La corsa ai ripari della Cina contro la denatalità, è valsa a qualcosa. Dopo aver abbandonato, nell’ottobre 2015, la politica del figlio unico, l’impero del dragone rosso ha conosciuto nel 2016, la nascita di 17,5 milioni di bambini. Secondo i dati riportati da Global Times si tratta di un aumento del 5,7 per cento rispetto all’anno precedente, quando sono nati 16,5 milioni di bambini. È inoltre il tasso di natalità più alto dall’inizio del millennio.
A fornire i dati Wang Pei’an, vice-ministro della National Health and Family Planning Commission (Nhfpc), il dicastero che si occupa di salute e controllo delle nascite. Secondo lui, la tendenza di crescita è destinata a proseguire, attestandosi attorno alle 20 milioni di nascite e portando la popolazione cinese a 1,45 miliardi entro il 2030.
La punta più bassa si era registrata nel 2006, con 15,84 milioni di nascite. La crisi demografica ha destato preoccupazione tra i vertici del Partito comunista cinese, per via delle ripercussioni sociali, con una drastica riduzione dei giovani in età lavorativa e un aumento di anziani che necessitano di previdenza. La popolazione compresa tra i 15 e i 59 anni, infatti, è gradualmente diminuita (di 3,71 milioni soltanto nel 2014), al cospetto invece di una crescita degli over 65.
Un rapporto della Banca Mondiale ripreso da Avvenire attesta che delle oltre 211 milioni di persone con 65 anni, presenti nella regione Asia orientale-Pacifico, ben 130 milioni vivono in Cina, il 36 per cento della popolazione globale in questo gruppo di età. Un tale squilibrio tra giovani e vecchi produce inevitabilmente problemi al sistema sanitario e previdenziale.
Tre decenni di politica del figlio unico sono dunque diventati una spina nel fianco per la Cina. Dal 1979, anno in cui Pechino decise di introdurre questa norma contraccettiva, si stima che sia stata evitata la nascita di 400 milioni di bambini.
Adottata durante la presidenza di Deng Xiao Ping, la legge sul figlio unico, rispondeva ad esigenze di controllo demografico per quello che, già allora, era il Paese più popoloso del mondo. Eccezioni erano previste per le minoranze etniche e per le famiglie rurali, nel caso in cui il primogenito fosse femmina.
Tra le sanzioni per i figli “clandestini” erano previste multe fino a qualche decina di migliaia di yuan (cifre insostenibili per la maggior parte dei cinesi), con la tragica alternativa degli aborti forzati e degli infanticidi. L’istituto familiare è stato così quasi debellato. Si stima che circa 160 milioni di famiglie cinesi – cioè il 40% del totale – siano oggi composte da non più di due persone.
Quello del 2016 è stato il primo effetto benefico dell’apertura “natalista” della Cina. Askanews ha riportato le dichiarazioni di alcune coppie cinesi raggianti, che a lungo hanno dovuto attendere la possibilità di mettere al mondo un secondogenito e che ora hanno potuto coronare il loro sogno. Infatti, secondo i dati diffusi ad ottobre, il 44 per cento dei bambini nati nella prima metà del 2016 sono secondogeniti, un salto del 6,9 e del 16,7 per cento rispetto al 2015, e all’inizio di questo decennio.
“Molte madri di questo Paese, a causa della vecchia legge, sono figlie uniche – afferma Zheng Xiaoyu, madre di un bambino, che nel 2016 è rimasta incinta del secondo – ma ora che possono, loro hanno scelto di dare un fratello o una sorella ai loro bambini, qui dove viviamo noi, quasi il 40% delle madri ha dato alla luce o è in attesa del secondo figlio”.
La fine della politica del figlio unico, tuttavia, non è di per sé una garanzia demografica per gli anni a venire. La crescita dei redditi, l’introduzione specie nelle grandi città cinesi di uno stile di vita borghese e consumistico, votato all’individualismo, scoraggiano i giovani dal metter su famiglia.
Un sondaggio della Federazione delle donne cinesi rivela che più della metà delle famiglie del Paese asiatico non vuole un secondo figlio. Questo dato dimostra che prima ancora che politica, la sfida per la natalità è culturale.
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