Credo che nel regno vegetale non ci sia notizia di piante prive di radici. Più o meno profonde, più o meno robuste e vistose, le radici sono parte integrante di tutto ciò che ha rami, foglie, fiori e frutti, di qualsiasi genere essi siano. Perché è un dato di fatto: ogni organismo vivente ha bisogno di nutrirsi in qualche modo. È chiaro quindi che tale considerazione, scontata se si vuole, ma non banale, interessa appunto ogni essere vivente, sia che appartenga al regno vegetale o animale, sia che esprima una forma di vita più semplice o più complessa. Uomo compreso, dunque. Ciascuno di noi, infatti, riconosce di non essere affatto privo di radici: di qualsiasi genere siano, esse traducono quel desiderio e bisogno di appartenenza che è caratteristica fondamentale di ogni figlio dell’uomo, a qualsiasi latitudine, e che abbraccia tutto l’arco della sua vita, in ogni campo. I sociologi dimostrano come anche il senso religioso, tipico di ogni rappresentante del genere umano, sia tutt’altro che una dimensione a sé stante, in grado di vivere di vita propria. Gli studiosi, cioè, fanno capire come anche la spiritualità innata di ogni uomo abbia radici poderose: esse affondano nel tempo e nella geografia, si mescolano alla cultura, al linguaggio, all’arte, spesso anche al modo stesso di vivere. Riconoscibili o meno che siano, le radici sono elemento imprescindibile anche di ciascuna espressione di fede.
È dal 1990 che la Conferenza Episcopale Italiana propone una Giornata per l’approfondimento e lo sviluppo del dialogo tra cattolici ed ebrei; e non è un caso che il tema della prima di queste giornate puntasse l’attenzione su “La radice ebraica della fede cristiana e la necessità del dialogo”.
Israele infatti, inteso in quell’inesprimibile intreccio che è la sua storia, la sua cultura, la sua fede, il suo appartenere a una terra e ad ogni terra, “è la radice santa, dalla quale si sviluppa il cristianesimo”, come sottolinea, tra gli altri, il catechismo degli adulti della Chiesa cattolica italiana (11,5).
La radice, quindi: insopprimibile, necessaria per far sì che la pianta sia nutrita.
Certo, l’ebraismo non può essere ridotto a qualcosa di nascosto e sotterraneo, come in genere sono le radici; tutt’altro, esso continua la sua vita in una molteplicità di forme e di “rami”, per così dire, che ne denotano tutta la vitalità. A dispetto di chi ancor oggi pensa che l’ebraismo sia una questione da museo, testimone fossilizzato di una storia conclusa con l’avvento del cristianesimo. Assolutamente, l’ebraismo resta un albero imponente e maestoso, che grazie a Dio nemmeno le mosse più bieche e peccaminose della storia sono riuscite ad annientare.
Il fatto quindi che i cristiani guardino agli ebrei come alla loro “radice santa” non equivale a sminuirne l’importanza o a sotterrarne il valore; piuttosto significa riconoscere che proprio da lì continuiamo a prendere la linfa indispensabile per la vita. Tagliare questo legame, o anche soltanto misconoscerne l’importanza, si tradurrebbe per i cristiani in una condanna a morte.
Si intuisce allora come non è un caso che questa Giornata per il dialogo ebraico-cristiano sia stata fissata al 17 gennaio di ogni anno: come il portale di apertura della Settimana di preghiera per l’unità dei credenti in Cristo, come il primo, insostituibile movimento di una sinfonia, i cui legami meritano ancora di essere scoperti, approfonditi, valorizzati. Legami, inoltre, capaci di rimettere in circolo linfa vitale anche per i rapporti tra i cristiani stessi, siano essi di tradizione ortodossa, cattolica o protestante. Sono convinto infatti che ogni sforzo di conoscenza reciproca tra cristiani ed ebrei, ogni impegno teso a riconoscere come il cristianesimo sia impensabile senza l’ebraismo di ieri e di oggi non possa che portare frutti buoni. Proprio come ogni pianta di valore che sa conquistarsi tutta la cura del suo giardiniere: un’attenzione mai superficiale o occasionale, una premura capace di arricchire tutte le stagioni dell’anno, e tutti gli anni della vita.
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