Da un lato la malattia e la sofferenza, dall’altro la genitorialità e i minori. Ed in mezzo una giurisprudenza ad uso e consumo delle volontà e dei desideri del singolo. Dj Fabo non c’è più perché la legge svizzera gli ha permesso di togliersi la vita. Due bambini hanno un “nuovo” padre perché un Tribunale italiano ha stabilito che un uomo senza alcun legame genetico può essere genitore.
La natura sembra diventata un optional così come la biologia ridotta a mero dettaglio.
L’uomo si autodetermina, sceglie per sé, si libera dai vincoli che la vita gli ha assegnato infrangendo ogni impedimento, pressando l’opinione pubblica, combattendo le sue cause e, come questi casi dimostrano, vincendole. E se in Italia non è permesso, si oltrepassa il confine oppure si aggira la legge esistente affidandosi a una Corte. Non è giusto. Secondo alcuni lo è. Ambedue gli atteggiamenti rischiano di farci cadere nella spirale di un giudizio fine a se stesso.
La vita merita rispetto così come la morte. Lo meritano quegli uomini e quelle donne che decidono di formalizzare la loro unione civilmente. Le meritano quelle madri che hanno vissuto la maternità e a cui, per vari motivi, devono rinunciare. E soprattutto lo meritano quei bambini che vivono sia l’amore di chi li ha desiderati sia l’assenza di chi li ha generati. Gli attori in gioco sono tanti così come le emozioni che proviamo vedendo Fabiano su un letto immobile e cieco che rifiuta quella che considera “una non vita”. Oppure ci identifichiamo nelle tante storie di persone che in nome di sentimenti alti rivendicano presunti diritti.
Sono i dettagli però a mancare.
Quelle sfumature che un articolo di giornale, un servizio televisivo o un post su Facebook annullano o nascondono volontariamente. Tutto si semplifica o viene gridato creando cortocircuiti sociali e culturali che fanno della parzialità e del pathos le proprie dimensioni fondative. Viviamo nel tempo del sì o del no, navighiamo in superficie, ci indigniamo, soffriamo e gioiamo in base a una comprensione immediata che tralascia la profondità e cede alla banalizzazione.
I media funzionano così. Tesi e antitesi. Posizione e contrapposizione. E nel centro il nulla.
Lo si lascia vuoto intenzionalmente perché un’interpretazione autentica può dar fastidio ed essere pericolosa, può delegittimare e smascherare strategie e finalità. Eppure la “potenza del particolare” può salvarci da questa superficializzazione della società evitando che sia un servizio de “Le Iene” a scatenare il dibattito sul fine vita o sia la notizia di una sentenza a legittimare la stepchild adoption.
Dietro i media però ci siamo noi.
Noi che scriviamo opinioni, andiamo in televisione in nome di presupposte competenze o ruoli istituzionali. Noi che ci incaselliamo in uno stereotipo e pensiamo di vincere alzando la voce. Noi che escludiamo a priori ogni tentativo di conciliazione e di confronto. Noi che sui social network odiamo, insultiamo, accusiamo. Noi che chiediamo silenzio e che, contemporaneamente, stiamo parlando.
Rispettare un’esistenza, un dolore, un sentimento non significa tacere. In questo modo si lascia il passo a una cultura del disimpegno che rappresenta uno dei mali di questo tempo caotico e complesso. Papa Francesco ci ha più volte richiamati ad uscire per contrastare le miriadi di individualismi che, secondo lui, rappresentano “l’asse di questa cultura” contemporanea di cui i media, nostro malgrado, possono diventare la cassa di risonanza principale. Ma soltanto se noi lo vogliamo. Possiamo scegliere di essere vittime della nostra emotività o della nostra indignazione e proiettarle negli spazi mediali. Oppure accogliere nuovamente la sollecitazione di Francesco, cioè farci “canali viventi che si lasciano condurre dalla Buona Notizia in mezzo al dramma della storia”.
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