Un sistema “con l’homo faber al centro”, “un’area di frontiera che guarda all’Europa”, una “città-spugna che ha fatto diventare milanesi coloro che venivano con la necessità e la voglia di lavorare”. Renato Mattioni, segretario generale della Camera di commercio di Monza e Brianza, ama Milano. Lo si capisce da come ne parla. Originario marchigiano – dunque a sua volta immigrato –, ha studiato in Università Cattolica e poi ha sempre lavorato qui, tra il Duomo e la Brianza. Editorialista delle pagine milanesi del “Corriere della sera”, conosce a menadito l’economica del territorio ed è un interprete ascoltato della realtà sociale. Emblematici i titoli di alcuni suoi libri, fra cui “Elogio del centrocampista. Corpi intermedi e Camere di commercio: il caso di Monza e Brianza”, “#Milano-Brianza in un tweet: lavoro, politica, partecipazione”. A pochi giorni dalla visita di Papa Francesco a Milano e alle terre di Lombardia (25 marzo), gli chiediamo di farci un quadro di questa “terra di mezzo”, come la chiama lo stesso Mattioni, che attende Bergoglio.
Lei richiama forse l’antico nome della città, la Mediolanum dei romani, la terra di mezzo nella pianura padana?
Certamente. Vedo così Milano e il suo vasto hinterland: una regione moderna, un hub, una piattaforma attrezzata per agganciare il Paese all’Europa.
Dove il lavoro e la responsabilità civica sono forti elementi identitari in un contesto caratterizzato dal “fare sistema” e dall’attenzione alla cosa pubblica.
Per dirla in breve, qui dalla raccolta differenziata alla governance le cose in genere funzionano.
Tutto perfetto, dunque?
No, non dico questo. Ci sono contraddizioni forti, ferite sociali evidenti. La crisi ha creato disoccupazione, povertà. A ciò si aggiungano i forti flussi migratori. È affiorata una sorta di precariato identitario. Si registrano inoltre evidenti dicotomie: ricchi e poveri, giovani e anziani, centro e periferia, garantiti e no. Però emerge, pur senza trascurare le eccezioni, un senso forte di appartenenza, che si fonda sulla realizzazione personale e sociale. C’è, insomma, un orizzonte comune. Pur nel travaglio di questo tempo, la città – si dice infatti “Milan coeur in man”, cuore in mano – resta generosa nella concretezza, realizza senza fare troppa retorica. Ci si dà da fare senza aspettarsi troppo da altri, neppure dallo Stato.
Diceva della crisi. Il capoluogo e la regione non ne sono usciti indenni…
A questo riguardo direi che un altro dato evidente è un certo scivolamento del ceto medio, sia quello dei lavoratori dipendenti sia quello degli autonomi.
La crisi ha un po’ sfilacciato il tessuto sociale, tipico di Milano. Ma la risposta alla recessione è venuta dal “gioco dei centrocampisti”,
dal “gioco totale”, da una rete fatta di imprese, lavoro, no profit, enti locali che si sono mossi nella stessa direzione, ognuno per la sua parte. Qui il principio di sussidiarietà si respira forte!
Prima accennava al senso identitario: la globalizzazione non spaventa Milano?
Possiamo dire che c’è una identità in cambiamento, come ovunque. Ma i milanesi sanno inserirsi nelle trasformazioni epocali: è in atto una rivoluzione nel quotidiano. Basti vedere come cambia il senso del territorio: se siamo tutto il giorno connessi, se viviamo sullo smartphone e leggiamo le istruzioni della lavatrice in inglese, è chiaro che le logiche di appartenenza cambiano. Bisogna sempre ricercare legami forti e una direzione verso cui marciare insieme. In questo senso la tenuta della società civile, il protagonismo delle parrocchie e del volontariato costituiscono una base solida sulla quale poi si possono innestare le eccellenze dell’impresa o dell’alta moda. Tra Milano e Monza, dove farà tappa il Papa, il senso del “glocal”, globale e locale insieme, si tocca con mano.
Cosa cambierebbe, se potesse, di Milano?
Direi che Milano dovrebbe avere maggiore attenzione per i suoi figli: una città amica ha infatti cura dei bambini, con spazi, tempi e servizi adeguati. Banalmente, in piazza Duomo anziché mettere le palme si potevano mettere degli spazi gioco per i più piccoli. Sarebbe inoltre necessaria una politica inclusiva, che sappia rigenerare le periferie, ricucendo i quartieri dormitorio con i luoghi della vita.
Non trascurerei l’integrazione dei lontani: perché abbiamo una sorta di città parallela, in cui confiniamo gli immigrati, molti dei quali lavorano nei bar, nei cantieri edili o come badanti nelle nostre case.
Ebbene, come un tempo si è superata la via Gluck, dov’erano confinati gli immigrati del sud, oggi è necessario evitare ghetti e considerare gli stranieri come cittadini di serie B.
Il Papa arriva a Milano. Lei cosa si aspetta?
Io vedo Bergoglio come un Pontefice ipermoderno, una figura che segna una discontinuità. Parla e agisce in modo che chiunque, anche la gente semplice, lo possa capire; ma, al contempo, riesce a interpretare la complessità del nostro tempo, rileggendola alla luce del Vangelo. Mi aspetto che Papa Francesco parli a ciascuno, ai giovani, alle donne, ai lavoratori e alle famiglie, mettendoci in guardia dal rischio delle polarizzazioni che segnano le grandi città del mondo e indicando una via di conciliazione, con una grande lezione di vita quotidiana.
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