Giovanna Pasqualin Traversa

Rilanciato dagli ultimi avvenimenti di cronaca – come il caso del rapinatore ucciso dal ristoratore di Lodi, mentre è caccia all’uomo nelle campagne del ferrarese per catturare il killer in fuga che ha freddato un barista nel corso di una rapina a Budrio e sta seminando il panico dopo avere ucciso anche una guardia ecologica – si riaccende il dibattito sulla legittima difesa. Intanto è da ieri all’esame della Commissione Giustizia a Montecitorio la proposta di legge per rivedere l’attuale normativa in materia, a firma del deputato Pd David Ermini, che ne è anche relatore. Il provvedimento è atteso in Aula il prossimo 19 aprile. Un tema particolarmente delicato, accompagnato da una forte onda emotiva e a rischio strumentalizzazioni da parte di chi cavalca l’attuale clima di insicurezza e di paura, ma il punto rimane

l’equilibrio tra il diritto di difesa da un’aggressione e l’eccesso di legittima difesa.

La normativa italiana. La legittima difesa costituisce una delle “cause di giustificazione” che rendono non punibile un comportamento che altrimenti si configurerebbe come reato. Nel nostro Paese è regolata dall’art. 52 del Codice penale: “Non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di difendere un diritto proprio od altrui contro il pericolo attuale di un’offesa ingiusta, sempre che la difesa sia proporzionata all’offesa”. Già nel 2006 si è intervenuti con una modifica di questo articolo, introducendo la cosiddetta legittima difesa domiciliare (o legittima difesa allargata), ossia il diritto all’autotutela in un domicilio privato oltre che in un negozio o un ufficio. In questi casi, è autorizzato il ricorso a “un’arma legittimamente detenuta o altro mezzo idoneo” per la difesa legittima della “propria o altrui incolumità” o dei “beni propri o altrui”. Centrale il principio di proporzionalità tra difesa e offesa, la cui violazione configura la fattispecie dell’eccesso colposo.

L’insegnamento della Chiesa. Alla legittima difesa il Catechismo della Chiesa cattolica dedica i nn. 2.263 – 2.267 affermando, in estrema sintesi, che non costituisce un’eccezione alla proibizione di uccidere l’innocente, che è legittimo far rispettare il proprio diritto alla vita, che chi difende la propria vita non si rende colpevole di omicidio anche se è costretto a uccidere il proprio aggressore, a condizione che la reazione difensiva non sia più violenta dell’offesa subita. Per chi è responsabile della vita di altri la legittima difesa è anche “un grave dovere”. Ne parliamo con monsignor Mauro Cozzoli, ordinario di teologia morale alla Pontificia Università Lateranense, che premette: “La questione è anzitutto di natura etica e morale. La propria difesa è un diritto, ma

quando vi si ricorre si è obbligati da tre condizioni etiche di legittimità”.

A un diritto si può sempre rinunciare; un dovere costituisce invece un obbligo…
Certamente. Qualcuno, evangelicamente, può rinunciare a difendere se stesso scegliendo la linea del “porgi l’altra guancia” ed evitando di rispondere alla violenza con altra violenza; ma la difesa è invece un dovere nei confronti degli altri, e tanto più lo è quanto più l’altro è piccolo, debole, inerme. La rinuncia a difendere l’altro avendo i mezzi e le possibilità per farlo può configurare addirittura una sorta di correità.

Assistere passivamente all’aggressione di un innocente diventa complicità omissiva e colpevole con l’aggressore.

Il Vangelo invita sì a porgere l’altra guancia, ma la propria, non quella dell’altro.

Il ricorso alla forza a scopo di difesa è sempre legittimo?
Non lo è tout-court. Secondo l’insegnamento della Chiesa per esserlo deve rispondere a tre condizioni.

Quali?
Deve anzitutto costituire un estremo, ultimo e inevitabile rimedio dopo che tutte le possibilità e i mezzi non violenti e meno violenti di dissuasione e di difesa dall’aggressore siano stati esperiti senza successo. La seconda condizione di legittimità è che la violenza offensiva sia reale, effettiva; non ipotetica, presunta o possibile. In nessun caso è lecita la violenza preventiva o dissuasiva. La reazione difensiva deve inoltre essere proporzionata alla violenza dell’offesa: non è lecito sparare ad un ladro disarmato, così come non è lecito farlo nei confronti di un’aggressione meramente verbale.

Può essere considerata causa di non punibilità la legittima difesa, anche con le armi, in caso di violazione di domicilio?
La violazione di domicilio, la semplice irruzione, non legittima il ricorso alle armi. Sarebbe un grave errore rendere la normativa più “permissiva” di quanto non lo sia oggi. La legge dovrebbe rispondere ai tre criteri appena richiamati, pena il rischio di sconfinare nella zona grigia del farsi giustizia da sé, del legittimare qualsiasi tipo di reazione.

Alcuni ritengono che il possesso di un’arma a scopo di difesa personale darebbe maggiore sicurezza ai cittadini e potrebbe costituire un deterrente per i malintenzionati…

La sicurezza è certamente un diritto dei cittadini, ma garantirla è compito delle istituzioni.

Non è corretto e va contro il buon senso invocare l’alibi di uno Stato che non difende i cittadini per dare il via libera ad una legittima difesa aggressiva e sproporzionata che rischierebbe di trasformarsi in “giustizia fai-da-te” o in vendetta; tuttavia i recenti drammatici fatti di cronaca costituiscono un richiamo per lo Stato garante del bene comune.

Quale dovrebbe essere, allora, il “criterio guida” del legislatore?
Premesso che non si può procedere sotto la pressione emotiva del momento, questo criterio è riassumibile nei tre requisiti di legittimità appena richiamati che bilanciano gli interessi di tutte le parti in causa, non rispondono a un dogma di fede ma a una logica etica e, come tali, non sono esclusivamente cristiani ma universalmente umani e ragionevoli, nel senso della “ragion pratica” di Kant.

Un dogma di fede non obbliga il legislatore; un principio di ragione sì.

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