Per interrogarsi e dialogare correttamente sul futuro dell’universo, serve una “cosmologia aperta” e una teologia che rinunci alla “politica dello struzzo”. Ne è convinto Francesco Brancato, ordinario di teologia dogmatica presso lo Studio teologico San Paolo di Catania, autore del volume “Il futuro dell’universo. Cosmologia ed escatologia”, che contiene una prefazione di Roberto Battiston, presidente dell’Agenzia Spaziale Italiana.
Da parte sua, la teologia nel suo confronto con la scienza impara a formulare in maniera più accorta il suo pensiero della fine, mantenendosi a una prudente distanza dalla tentazione che nel passato l’aveva colpita, ovvero quella di trasformarsi in una sorta di reportage anticipato degli eventi finali dell’esistenza dell’uomo e della storia dell’universo, una vera e propria finestra aperta sull’aldilà e sugli eventi conclusivi del cosmo creato.
A vent’anni dalla “Fides et ratio” di Giovanni Paolo II, e alla luce di quanto scrive Papa Francesco nell’Evangelii gaudium (nn. 242-243), quali sono oggi le “ragioni” del dialogo tra scienziati e teologi?
Ogni qualvolta leggo soprattutto l’incipit del n. 242 di Evangelii gaudium, lì dove leggiamo che “anche il dialogo tra scienza e fede è parte dell’azione evangelizzatrice che favorisce la pace”, sento, tra le altre cose, anche un forte senso di responsabilità e mi sento incoraggiato, nel mio piccolo, circa il lavoro che tento di portare avanti. Il panorama culturale, politico, economico e religioso di 20 anni fa, quando venne pubblicata l’enciclica di Giovanni Paolo II, rispetto a quello attuale è in buona parte cambiato, ma è anche vero che i problemi che l’uomo si pone, le sue domande fondamentali circa la sua provenienza e l’origine di tutte le cose, il senso del suo stare al mondo, il suo destino e il destino dell’universo in cui abita e di cui è parte, sono sempre uguali, per cui le ragioni del dialogo sono non solo immutate, ma, se possibile, sempre più evidenti. Perché ci sia vero dialogo è necessario che si raggiunga il cuore della riflessione dell’interlocutore e che non ci si rassegni o ci si accontenti di sfiorarne soltanto la parte più superficiale e più innocua. Un convinto dialogo tra scienza fede, infatti, non può portare a un’armonizzazione affrettata delle rispettive posizioni.
Nel dialogo con la scienza la teologia deve perciò rifuggire dalla tentazione di una “politica dello struzzo” per far fronte all’imbarazzo e alla contraddizione in cui, a volte, cade il pensiero credente quando fa i conti con un avanzare della scienza a cui non è sufficientemente preparato.
Come districarsi tra i diversi modelli scientifici sul cosmo? Le parole della teologia sono una risposta ai limiti della scienza?
La fisica del ‘900 ha mostrato sempre più che l’immagine del mondo è complessa e difficilmente riducibile entro un solo schema di pensiero. Il mondo, infatti, rivela una complessità di cui non può dare ragione la sola fisica o la scienza in genere. Quest’ultima, in effetti, ha compreso sempre meglio che l’atteggiamento che deve assumere è quello della modestia. Il sapere scientifico, difatti, così come tutti gli altri saperi umani, è storico e parziale. Per questa ragione non può essere assolutizzato a motivo dei limiti intrinseci alla sua conoscenza che rendono improbabile l’elaborazione di “teorie del tutto” capaci di ricostruire nel dettaglio l’intero reale in tutta la sua irriducibile complessità.
Credo che oggi il dialogo – non solo possibile, ma necessario – tra la teologia e la cosmologia possa avvenire soltanto nella misura in cui abbiamo a che fare con una cosmologia aperta.
Il dialogo è possibile soltanto nella misura in cui abbiamo a che fare con una teologia disposta a rinunziare ad autodefinirsi come l’istanza assolutamente ultima, risolutiva, conclusiva, della ricerca di senso da parte dell’uomo, come se tutto il resto fosse solo contrassegnato dal limite e dal provvisorio; una teologia, dunque, che ha coscienza di essere in possesso di quella “ignorantia futuri” di cui parlo più volte nel mio libro. Ciò che mi spaventa soprattutto quando la teologia è impegnata a parlare del destino ultimo dell’universo – e lo scrivo nel mio libro – è, infatti, il pericolo che la riflessione credente possa dare l’impressione di essere in possesso di un “tesoro di scienza rivelata” o, per usare l’immagine di qualcun altro, di una sorta di “copione dell’ultimo atto della tragedia umana”. Ciò che si dice della scienza vale, dunque, in un certo qual modo, anche per la teologia.
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