Saggezza è saper contare i propri giorni. È pensare alla propria morte, al giorno in cui Gesù verrà per prenderci per mano e dirci, come alla figlia di Giairo: “Vieni, alzati! Vieni, risorgi!”. Nell’udienza di oggi, Papa Francesco ha esortato a fare i conti con la propria morte, una realtà che la nostra civiltà tende sempre più a cancellare. Alla fine, un appello per la Somalia, colpita da un tragico attentato terroristico.
“Contare i propri giorni fa che il cuore divenga saggio”,
dice il Papa a braccio per sintetizzare l’atteggiamento del cristiano nei confronti della morte: quando arriva, per chi ci sta vicino o per noi stessi, ci troviamo impreparati, privi di qualsiasi alfabeto adatto per abbozzare parole di senso. Eppure, si può dire che l’uomo sia nato con il culto dei morti: altre civiltà, prima della nostra, hanno avuto il coraggio di guardarla in faccia, e i vecchi la raccontavano alle nuove generazioni come una realtà ineludibile. Poi la citazione del Salmo 90: “Insegnaci a contare i nostri giorni e acquisteremo un cuore saggio”. Parole che ci riportano a un sano realismo e scacciano qualunque delirio di onnipotenza. Noi siamo quasi un nulla, ci dicono i salmi:
“I nostri giorni scorrono via veloci: vivessimo anche cent’anni, alla fine ci sembrerà che tutto sia stato un soffio”. È così che dicono gli anziani: “la vita mi è passata come un soffio”.
La morte mette a nudo la nostra vita: ci fa scoprire che i nostri atti di orgoglio, di ira e di odio erano pura vanità. Di fronte alla morte,
“ci accorgiamo con rammarico di non aver amato abbastanza e di non aver cercato ciò che era essenziale. E, al contrario, vediamo quello che di veramente buono abbiamo seminato: gli affetti per i quali ci siamo sacrificati, e che ora ci tengono la mano”.
Gesù ha pianto davanti alla tomba del suo amico Lazzaro: è lì che lo abbiamo sentito come un fratello, quando le sue lacrime ci hanno autorizzato a sentirci addolorati quando una persona cara se ne va. Ma poi Gesù prega il Padre e ordina a Lazzaro di uscire dal sepolcro, e così avviene:
“Tutta la nostra esistenza si gioca qui, tra il versante della fede e il precipizio della paura”.
“Io non sono la morte, io sono la risurrezione e la vita, credi tu questo? Credi tu questo? Noi che oggi stiamo qui in piazza, crediamo questo?”, chiede Francesco rivolgendosi alla folla in piazza San Pietro. L’episodio evangelico è la risurrezione della figlia di Giairo, un padre tentato di reagire con rabbia e disperazione perché è morta la sua bambina. Gesù, invece, gli chiede solo di tenere viva la fiammella della fede: fa così anche con Marta che piange per suo fratello Lazzaro. “‘Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà; chiunque vive e crede in me, non morirà in eterno. Credi tu questo?’. È quello che Gesù ripete ad ognuno di noi, ogni volta che la morte viene a strappare il tessuto della vita e degli affetti”.
Siamo tutti piccoli e indifesi davanti al mistero della morte, ma quando quel giorno verrà, Gesù ci prenderà per mano, come prese per mano la figlia di Giairo, e ripeterà ancora una volta: “Talità kum”, “Fanciulla, alzati!”. Lo dirà a noi, a ciascuno di noi: “Rialzati, risorgi!’”.
“Ognuno di noi pensi la propria morte”, l’invito finale del Papa: “E si immagini quel momento, che avverrà, quando Gesù verrà da ognuno di noi e ci prenderà per mano con la sua tenerezza, con la sua mitezza, con il suo amore. Lì finirà la speranza e sarà la realtà, la realtà della vita”.
È questa la speranza cristiana davanti alla morte: per chi crede, è una porta che si spalanca completamente, per chi dubita è uno spiraglio di luce che filtra da un uscio che non si è chiuso proprio del tutto.
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