“Il Papa in Siria? È stato invitato diverse volte in modo formale e informale a visitare la Siria. Tutti i vescovi hanno manifestato questa volontà. Certo bisogna anche capire dove andare ospite e chi visitare. Non è facile e anche la sicurezza non è stabile”.
Non nasconde la speranza di vedere il Pontefice nel suo Paese dilaniato da oltre sette anni di guerra, padre Ibrahim Alsabagh, parroco latino di Aleppo, che ieri a Roma ha presentato il suo libro “Viene il mattino: Aleppo, Siria. Riparare la casa, guarire il cuore” (Edizioni Terra Santa). Nella conferenza stampa, padre Alsabagh ha fatto il punto sulla situazione in Siria, parlando di Aleppo, dei combattimenti che proseguono e che impediscono la ricostruzione”. Le sfide oggi per la popolazione siriana sono anche “la corruzione e il fondamentalismo alimentati dalla guerra che rischia di allargarsi visto lo scambio di missili tra Siria e Israele nel sud del Paese”. E sul futuro della Siria il francescano ha ribadito che “per noi la scelta migliore è Assad”. L’alternativa adesso sarebbe solo “l’Isis e il fondamentalismo”. Il Sir ha intervistato il parroco a margine della presentazione del suo libro.
Padre Alsabagh, dopo sette anni di guerra, siamo entrati nell’ottavo, cosa resta di Aleppo e della Siria?
Già dire “cosa resta” suscita amarezza. Se guardiamo ad Aleppo, quella che un tempo era la capitale economica della Siria, come lo è Milano per l’Italia, che deteneva da sola il 60% della produzione industriale, oggi è poco più di un villaggio totalmente dipendente dalle altre città siriane. È passato un anno e mezzo dall’accordo per il cessate-il-fuoco del 22 dicembre 2016 e poco o nulla è stato fatto per ricostruire la città.
Ciò che resta sono ruderi. Anche nel cuore della popolazione ci sono solo macerie, tante ferite, tanta amarezza e tanto terrore.
Aleppo e la Siria oggi sono una periferia “esistenziale” per citare parole del suo libro. Come riportarle al centro dell’attenzione del mondo che sembra aver dimenticato questo conflitto che ha provocato circa mezzo milione di morti, centinaia di migliaia di feriti e milioni tra sfollati interni e profughi?
Adottare il principio della carità, difendere i diritti umani, l’uguaglianza e la giustizia. Senza questi valori non ci potrà essere mai pace. E la Siria, con Aleppo, resteranno periferie esistenziali del mondo di oggi.
Un richiamo ai diritti del tutto inascoltato visto che si continua a combattere in diverse zone…
Intorno ad Idlib, città ad Ovest di Aleppo, sono presenti migliaia di miliziani di diverse fazioni armate antigovernative che si combattono tra di loro e talvolta lanciano missili anche verso la parte Ovest di Aleppo, seminando terrore e morte.
Quello delle milizie armate, e del loro futuro, è un punto che deve essere affrontato. Ora sono controllate dai turchi in ossequio agli accordi di Astana (siglati il 4 maggio 2017 da Turchia, Russia e Iran, ndr.) ma il futuro non è chiaro. Ciò che preoccupa è anche l’escalation militare a sud del Paese, con scambi di missili tra Siria e Israele. Se dovesse allargarsi il conflitto sarebbe devastante per tutta la regione mediorientale e presto si trasformerebbe da guerra regionale a guerra mondiale. La sofferenza del popolo sarebbe immensa.
Il 28 maggio scorso il Consiglio Ue ha prorogato di un anno, fino al 1 giugno 2019, le sanzioni nei confronti del regime siriano. La guerra si combatte anche fuori dai confini siriani e la diplomazia sembra latitare. Come giudica questa decisione dell’Ue?
L’embargo non può essere un’arma usata contro un popolo.
Le sanzioni non fanno altro che aumentare la sofferenza del popolo siriano che già subisce fame e ha difficoltà a reperire i beni essenziali quotidiani. Lo vediamo negli ospedali dove le medicine scarseggiano, e in altre situazioni analoghe. Difficile far transitare anche gli aiuti umanitari diretti alla Chiesa e alle associazioni caritatevoli cristiane sempre più in difficoltà per far passare denaro necessario ad alleviare i bisogni della gente povera. Chiedo ai leader politici di riflettere sulla giustizia delle sanzioni che toccano solo i più poveri.
Tanti anni di guerra hanno reso la Siria un cumulo di macerie. Per ricostruirla ci vorranno miliardi di dollari. Senza l’aiuto dei Paesi della comunità internazionale – anche di quelli che hanno contribuito a distruggerla con la guerra – per la Siria sarà impossibile risorgere. Non le sembra paradossale che chi ha contribuito alla devastazione ora ne promuove la ricostruzione?
Le contraddizioni sono tante. Ciò che chiediamo con insistenza è la pace e la giustizia. Il popolo siriano ha il diritto di vivere con dignità e deve essere messo in grado di riprendere il suo cammino…
Nel libro scrive che ad Aleppo “ci sono le case da riparare, le chiese e le moschee, ma a dover essere ricostruita è soprattutto la persona. Le ferite sono tante: di manifeste e di nascoste, nei cuori delle persone e nelle relazioni a tutti livelli della società”. La ricostruzione morale passa per la riconciliazione e il perdono. I siriani ne saranno capaci dopo tanta guerra?
Ad Aleppo noi abbiamo potuto sperimentare anni e anni di convivenza pacifica, un mosaico bellissimo ricco di colori e di diversità. Siamo sempre riusciti a vivere insieme. La zizzania, il seme della divisione che non era così evidente e profondo anche nel mondo islamico, ha spaccato la nostra società generando odio. Il primo passo allora è far cessare le armi e successivamente provare la riconciliazione. La nostra gente è molto amabile e capace di riconciliarsi.
Certamente la presenza sul suolo siriano di tanti Paesi stranieri, con i loro eserciti e consiglieri militari, non aiuta il processo di riconciliazione che lei auspica anzi indebolisce la sovranità della Siria. Come se ne esce?
Una presenza che pesa tantissimo. I lati negativi di questa presenza sono molti di più di quelli positivi. Si tratta di un dilemma che deve essere risolto in sede di comunità internazionale. La pace presuppone un lavoro di tutte le parti coinvolte nel conflitto e della comunità internazionale. Insistiamo nel dire che
tutte le nazioni che operano sul nostro suolo devono mettersi d’accordo per far tacere le armi e porre fine alla morte lenta imposta al popolo siriano.
In questi anni di conflitto la comunità cristiana siriana si è sempre prodigata per aiutare tutta la popolazione mettendo in campo iniziative e progetti solidali. Tuttavia, sono tantissimi i cristiani che hanno abbandonato il Paese e che ora si trovano in Libano, Giordania, Turchia in attesa di emigrare in Paesi Occidentali. Qualcuno è giunto anche in Italia attraverso i corridoi umanitari. Avete timore che questi cristiani non tornino più in patria e che la Siria non vedrà più l’operosa e nutrita presenza cristiana di una volta?
In questi anni, come Chiesa, ci siamo mobilitati a favore di tutta la popolazione siriana. Abbiamo in corso circa 50 progetti umanitari nel campo dell’emergenza sanitaria, alimentare, abitativa, scolastica e lavorativa. Stiamo ricostruendo case e finanziando micro progetti per rilanciare l’occupazione. Ora che siamo in estate stiamo pensando ad oratori estivi. Vogliamo portare vita nuova e guarigione nelle persone. Così facendo costruiamo ponti di dialogo e di riconciliazione. Due terzi dei cristiani delle nostre comunità ha lasciato il Paese e l’esodo continua. Ora stiamo assistendo all’ondata dei ricongiungimenti familiari. Molti di coloro che sono partiti e hanno trovato una sistemazione all’estero chiamano a sé le loro famiglie. Abbiamo timore per il futuro delle minoranze siriane, soprattutto per quella cristiana che si assottiglia sempre più. Noi facciamo il possibile per incoraggiare la gente a tornare ma sono ancora pochi.
A chi promuove i corridoi umanitari oggi chiediamo di organizzarne anche per favorire il rientro in Siria di chi è fuggito. La Siria ha bisogno dei cristiani per risorgere.
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