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Abbiamo ricevuto questa e-mail: “In questi giorni c’è stato un gran dibattito, anche sui social, sulla frase del Cardinale Ravasi che ha ripreso semplicemente la frase del Vangelo: “Ero forestiero e non mi avete accolto”. Ho visto che molte persone, anche fra quelle che frequentano abitualmente le parrocchie, hanno espresso dei giudizi pesanti sul tema, negando la primaria assistenza agli immigrati. Qual è lo sguardo che un cristiano deve avere sul tema?”

Così risponde il teologo Nicola Rosetti: “Prima ancora che essere un problema di fede, il tema dell’immigrazione è una questione umana che interpella ogni singola coscienza, sia quella dei credenti che quella dei non credenti. Per cui per rispondere a una domanda del genere si può fare ricorso tanto alla ragione che alla fede. Da un punto di vista umano e ragionevole il fenomeno dell’immigrazione dice innanzitutto disagio: migliaia e migliaia di persone non si sposterebbero dalla loro terra, a volte a rischio della propria vita, se non fossero mosse da un’esigenza profonda di migliorare le proprie condizioni di vita. Sradicarsi dalla propria terra non è certamente una scelta facile e una simile decisione può essere presa solo se si è mossi da una grande speranza di cambiamento. L’immigrazione è un problema, non solo per i paesi che devono accogliere, ma soprattutto per i paesi di partenza che si spopolano di tanti giovani. Le circostanze sono totalmente diverse, ma anche noi italiani vediamo quanto sia deleterio per il nostro popolo la cosiddetta “fuga dei cervelli”: perdiamo un capitale umano inestimabile.

È dunque a questo livello che si colloca realmente il problema e a sua volta anche la soluzione: bisognerebbe rimuovere quelle cause di sofferenza che spingono tanti esseri umani a emigrare. A tal proposito il vescovo brasiliano Hélder Câmara ha affermato: “Se do il pane ai poveri, tutti mi chiamano santo; se dimostro perché i poveri non hanno pane, mi chiamano comunista e sovversivo”. Sulla stessa linea di pensiero, parecchi secoli fa Confucio ha affermato: “Se vedi un affamato non dargli del riso: insegnagli a coltivarlo”. Se applichiamo questi principi all’attuale situazione, comprendiamo come solo la cooperazione internazionale fra gli Stati possa fornire una valida risposta al problema. “Aiutiamoli a casa loro” non dovrebbe essere uno slogan xenofobo sulla bocca di egocentrici e menefreghisti, ma il principio di un serio impegno di sviluppo che le nazioni più abbienti devono praticare verso le più povere del mondo. Sempre Hélder Câmara ha affermato:

“Oggi l’elemosina più grande è operare per l’avvento della giustizia sociale”.

Una soluzione al problema contingente dunque non è una soluzione completa. Serve da parte della classe dirigente degli stati uno sguardo lungimirante. Se aiuto nel vagone di un treno un sofferente che urla, non ho aiutato solo lui, ma tutti i timpani dei passeggeri. Fuor di metafora, abbiamo bisogno di comprendere che la solidarietà ha effetti benefici anche su chi non è direttamente aiutato e addirittura su chi si prodiga ad aiutare.

Nel frattempo che questa logica si sviluppi, che cosa bisogna fare?
Certamente non c’è ombra di dubbio: davanti a degli esseri umani che su una barca in mezzo al mare rischiano la propria vita non abbiamo altra possibilità morale che salvarli. Altre soluzioni che pure non poche persone propongono degraderebbero la nostra umanità. Dobbiamo metterci nei panni di questi disperati e immaginare l’estremo bisogno di aiuto. Una volta salvati è necessario verificare quanti abbiano effettivamente diritto a rimanere nel nostro paese e quanti invece debbano essere riaccompagnati a casa. Si tratta di un’operazione necessaria, perché in maniera comprensibile il sistema-paese può farsi carico solo di un certo numero di bisognosi perché realisticamente gli immigrati vanno integrati e cioè vanno inseriti nel tessuto sociale ed economico, soprattutto attraverso il lavoro. È evidente che si tratta di un percorso ineludibile perché inevitabilmente chi non è immesso nel mondo del lavoro sarà facile preda della criminalità e questo comporterebbe con gravi problemi per l’ordine pubblico.

Non dobbiamo comunque farci sopraffare dal problema presente e non dobbiamo vedere nell’altro un pericolo. In questo frangente i cristiani sono chiamati spargere semi di speranza come fecero ai tempi della caduta dell’impero romano. In quel tempo in cui la fine di una super potenza, dovuta all’invasione dei barbari, sembrava coincidere con la fine del mondo, i cristiani hanno saputo porre le basi per una nuova e luminosa epoca, in particolare grazie alla figura di Benedetto da Norcia e dei suoi monasteri nei quali convivevano pacificamente latini e barbari. Ed è proprio la Chiesa la prima impegnata su questo fronte, tanto in Italia quanto nei paesi bisognosi. Sono del tutto ingiustificate e a volte anche volgari le accuse mosse nei confronti della Chiesa. È addirittura imbarazzante la posizione di coloro che la invitano a tacere su questo problema, lasciando che siano liberamente gli stati a scegliere le soluzioni. Magari sono gli stessi che accusano di ignavia Pio XII per non essere intervenuto in favore degli ebrei durante la seconda guerra mondiale”.

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