Andrea Zaghi
La campagna va in città. Non è cosa nuova. Eppure, in un’epoca nella quale la velocità sembra essere tutto, la digitalizzazione appare come l’unica strada verso la modernità e il virtuale l’unica forma di vita davvero “da vivere”, la presenza dei “contadini” e delle loro bancarelle nelle migliori piazze d’Italia, deve far pensare. C’è un ritorno – per certi versi apparente – al passato. Ma soprattutto una riscoperta. L’accorgersi che il moderno è altro dal solo digitale.
Il fenomeno dei prodotti agroalimentari a chilometri zero, seguito dai mercati dei contadini e adesso dai Villaggi Coldiretti che piano piano stanno percorrendo l’intera Penisola, indica una precisa strategia politica e di mercato, ed è anche ormai un movimento culturale che nasce dall’attenzione alla buona alimentazione e all’ambiente, dalla riscoperta delle tradizioni e di una certa sana dose di campanilismo.
Dentro ai “villaggi contadini” (in questi giorni quello di Torino, prima a Bari e Napoli), c’è ovviamente tutto il mondo agricolo. Con un solo obiettivo: rilanciare, consolidare e diffondere sempre di più l’immagine (e il succo) di un settore che è fondamentale ancora oggi. E non solo per la produzione alimentare di qualità alla quale dà origine, ma anche per il ruolo di presidio ambientale e culturale che il lavoro che vi si svolge si porta dietro. Attenzione ai bilanci dunque ma anche all’equilibrio ambientale, alla salubrità del prodotto, al benessere. Contadini, anzi imprenditori a presidio di un mondo. Economia ma non solo. Anche se poi,
l’agricoltura italiana vale miliardi di euro di giro d’affari, centinaia di migliaia di posti di lavori che diventano milioni con l’indotto,
ed esportazioni che pongono il settore testa a testa con quello della moda e che comunque portano in giro per tutti i continenti il buon nome della nostra sapienza produttiva.
Fascino bucolico e ragionamento economico vanno così di pari passo. Insieme alla necessità sempre più spinta di essere consapevoli di cosa mangiamo e di avere certezza della sanità e salubrità di quello che arriva sulle nostre tavole. È da qui che in questi anni sono nate tutte le attenzioni (più che doverose), verso la tutela dei prodotti tipici e i controlli sul commercio on-line, così come la lotta ai falsi prodotti alimentari italiani (il cui valore ancora oggi supera di gran lunga quello delle nostre esportazioni). Certo, non bisogna dimenticare poi che l’agricoltura e la zootecnia sono fatte anche dalle cosiddette commodities, cioè dalle grandi produzioni indistinte, che viaggiano per il mondo dove i mercati sono più convenienti. Ma queste si portano dietro i tanti prodotti blasonati, e viceversa.
Moda e costume accanto a necessità reali.
Per questo, proprio a Torino, è nata l’iniziativa della “spesa sospesa” cioè della partecipazione economica al sostegno della spesa alimentare per altri, che non possono permettersi nemmeno di acquistare il necessario a mettere insieme il pranzo con la cena.
Economia, ambiente, alimentazione, solidarietà. Un quartetto che in qualche modo ruota attorno alla produzione agricola e che Coldiretti ha il merito di aver messo a fuoco.
Agricoltura in città, dunque. La storia non si ripete mai uguale ma in qualche modo ritorna. Come, infatti, non fare il paragone con i grandi flussi migratori che negli anni ’50 e ’60 portarono i contadini dalle campagne povere alle città industriali? Accanto alla “rivoluzione verde” ci fu anche il cammino di migliaia di persone dai campi alle fabbriche. Progresso che, passata la fase dell’industrializzazione e delle crisi (energetiche, finanziarie e di consumo), sembra adesso continuare proprio con la riscoperta del passato contadino. Che va ricordato e in molti casi insegnato. Perché ai giovani cittadini di oggi può accadere che la campagna possa essere davvero sconosciuta. Perché il ragazzo della via Gluck è ormai davvero molto lontano. E perché occorre fare in modo di evitare l’esperienza di quella bambina nata e cresciuta in una grande metropoli, che un giorno disse: “Oggi mio papà mi ha portato in un bellissimo posto, dove c’era una moquette chiamata erba”.
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