“Non abbiamo paura di lavorare in perdita!”. È l’unica aggiunta a braccio, sotto forma di esortazione, al suo primo discorso in terra elvetica. Nell’esclamarlo, durante il pellegrinaggio ecumenico al World Council of Churches di Ginevra (Wcc), Francesco – il terzo papa dopo il beato Paolo VI e san Giovanni Paolo II a visitare la Svizzera, ma il primo a fare visita all’organismo che compie 70 anni di attività – spiega come i cristiani, prima che dichiararsi “conservatori” o “progressisti”, devono schierarsi dalla parte di Gesù e del Vangelo. Si tratta di un’opzione preliminare decisiva, obbligatoria e non facoltativa: l’ecumenismo “è una grande impresa in perdita”, agli occhi del mondo, perché per il cristiano il bivio di sempre è quello tra “camminare nello Spirito” e “camminare nella carne”.
“Se ogni uomo è un essere un cammino, e chiudendosi in se stesso rinnega la sua vocazione, molto di più il cristiano”, esordisce il Papa nella preghiera ecumenica, in cui chiede di “rigettare la mondanità”, quella che ha provocato il fallimento dei tentativi di porre fine alle divisioni dei cristiani. Troppo facilmente ci si ferma davanti alle divergenze che rimangono o ci si blocca, con pessimismo, ai blocchi di partenza, il primo bilancio dell’ecumenismo, che ieri come oggi ha una meta precisa.
“Il mondo, dilaniato da troppe divisioni che colpiscono soprattutto i più deboli, invoca unità”,
l’appello di Francesco, venuto a Ginevra come pellegrino in cerca di unità e di pace. “La strada contraria, quella della divisione porta a guerre e distruzioni!”, lo sguardo realistico sull’oggi. “Camminare insieme per noi cristiani non è una strategia”, perché solo la via della comunione conduce alla pace.
Dopo il pranzo all’Istituto ecumenico di Bossey, il Papa torna al Wcc per l’incontro ecumenico, occasione per un bilancio più ampio del cammino percorso e per l’individuazione dei passi futuri. Il grimaldello per guardare oltre, superando “gli steccati dei sospetti e della paura”, è il perdono, tipico di coloro che hanno avuto il coraggio di “invertire la direzione della storia – dice Francesco – quella storia che ci aveva portato a diffidare gli uni degli altri e ad estraniarci reciprocamente, assecondando la diabolica spirituale di continue frammentazioni”. Oggi, grazie alla capacità di chi ci ha preceduto di camminare secondo lo Spirito,
“la direzione è cambiata e una via tanto nuova quanto antica è stata indelebilmente tracciata: la via della comunione riconciliata”.
La Chiesa cresce per attrazione, ricorda il Papa citando Benedetto XVI e chiedendo ai presenti
un “nuovo slancio evangelizzatore” per “una nuova primavera ecumenica”.
Il mandato missionario, fino agli estremi confini della terra, non è un optional: la forza di attrazione del messaggio cristiano non è una raccolta di consensi, il popolo di Dio non è una Ong.
“Camminare, pregare, lavorare insieme”, recita il motto del viaggio. Camminare “in entrata e in uscita”; pregare mai da soli, perché la preghiera “è l’ossigeno dell’ecumenismo”; lavorare come fanno la Commissione “Fede e Costituzione” e l’Istituto ecumenico di Bossey, traduce Papa Francesco, definendo – tra le altre iniziative – la crescente adesione alla Giornata di preghiera per la cura del creato un buon segno dell’afflato ecumenico.
“La credibilità del Vangelo è messa alla prova dal modo in cui i cristiani rispondono al grido di quanti, in ogni angolo della terra, sono ingiustamente vittime del tagico aumento di un’esclusione che, generando povertà, fomenta i conflitti”.
È la cartina al tornasole dell’ecumenismo, in un mondo in cui “i deboli sono sempre più emarginati, senza pane, lavoro e futuro, mentre i ricchi sono sempre di meno e sempre più ricchi”.
“Non possiamo disinteressarci, e c’è da inquietarsi quando alcuni cristiani si mostrano indifferenti nei confronti di chi è disagiato”,
il monito. Saremo giudicati sull’amore per il prossimo, ogni prossimo: “Vediamo ciò che è possibile fare concretamente, piuttosto che scoraggiarci per ciò che non lo è”, la proposta: “Chiediamoci: che cosa possiamo fare insieme?”.
Pane, padre e perdono: sono le tre parole che scandiscono l’omelia della Messa al Palaexpo di Ginevra, prima del congedo per il ritorno a Roma. Nel suo ultimo discorso, Francesco ricorda che “nessuno di noi è figlio unico, ciascuno si deve prendere cura dei fratelli nell’unica famiglia umana”. Raccomandando la preghiera del “Padre nostro”, “la segnaletica della vita spirituale”, il luogo delle radici nelle nostre società spesso sradicate, il Papa ricorda che “ogni essere umano ci appartiene” e che siamo tutti chiamati a “darci da fare perché non vi sia indifferenza nei riguardi del fratello, di ogni fratello: del bambino che ancora non è nato come dell’anziano che non parla più, del conoscente che non riusciamo a perdonare come del povero scartato”.
“Guai a chi specula sul pane”, il secondo monito per una vita che “per molti è come drogata”,
presi come siamo a correre “dalla mattina alla sera, tra mille chiamate e messaggi, incapaci di fermarsi davanti ai volti, immersi in una complessità che rende fragili e in una velocità che fomenta l’ansia”. Quella dei cristiani, allora, deve essere una scelta controcorrente, “una scelta di vita sobria, libera dalle zavorre superflue”. Che sceglie la semplicità del pane, “le persone rispetto alle cose, perché fermentino relazioni personali, non virtuali”. Perdono, infine, perché – anche nell’ambito ecumenico – serve
“fare una bella radiografia del cuore” per “un’amnistia generale delle colpe altrui”.
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