“La più grande bufala oggi in giro è che i nostri giovani siano il problema e noi adulti saremmo la soluzione. È un rischio che corriamo anche nella Chiesa. La mossa ‘politica’ è quella di ribaltare questa convinzione perché in realtà loro sono la risorsa”. Lo ha affermato questa mattina don Armando Matteo, docente di Teologia fondamentale all’Università Urbaniana di Roma, intervenendo ad Assisi alla 68ª Settimana di aggiornamento pastorale promossa dal Centro di orientamento pastorale. Parlando di “Giovani e comunità cristiana”, don Matteo è partito con il sottolineare che “è impossibile parlare dei giovani senza tenere in conto quanto succede nelle due generazioni che li hanno preceduti” e nelle quali “c’è una grande crisi umana e spirituale”. Rispetto alla “grande fuga” dei giovani dalla Chiesa, il teologo ha osservato che “i giovani da questa Chiesa che incarniamo non si aspettano più niente, e per cogliere questo dato è necessario tener conto della rottura generazionale della trasmissione della fede”. Quella che produce il fatto che “nelle nostre parrocchie ci sono oggi più nonne e nonni che nipoti”. E se siamo davanti ad una generazione per la quale quanto vissuto con l’iniziazione cristiana “rimane un bel ricordo, un ‘rumore di fondo’ che non incide nella vita quotidiana” da questa generazione arriva la domanda provocatoria “Che cosa significa essere cristiani quando non si è più bambini?”. “Questo perché – ha spiegato – i loro adulti di riferimento non riescono più a mostrare il legame tra adultità e fede”. Oggi, “la maggior parte dei giovani sta imparando a vivere senza Dio, senza esperienza della Chiesa, senza riferimento a Gesù Cristo”, ha aggiunto, osservando che “la ragione di tutto questo è la rottura della trasmissione generazionale della fede perché l’universo adulto ha rinunciato alla propria testimonianza di fede”. Innanzitutto in famiglia. Ma “gli occhi di mamma e papà sono la prima cattedra di teologia e se in loro non c’è l’esperienza di Dio il problema di Dio non si pone nei loro figli”. “Si tratta di prendere consapevolezza – ha detto con chiarezza – che siamo davanti ad un’eclissi di un cristianesimo domestico”. Don Matteo ha poi osservato che “la generazione post-bellica ha deciso che la propria felicità non dipende più dall’adesione alla struttura fondativa dell’essere adulto ma alla capacità di restare giovani”, “una rivoluzione copernicana in atto”. E ha analizzato il “mito della giovinezza”, il “tabù della vecchiaia”, il “problema che non siamo più in grado di riconoscere il nostro essere mortale”. Questo produce la “ritrascrizione dell’identità dei giovani”.
Quattro le sollecitazione per la comunità ecclesiale. La prima è quella che “serve una Chiesa che sappia obbedire al magistero del reale”, imparando ad “accettare che nelle famiglie non si preghi più, non si legga più il Vangelo, non si parli più degli aspetti decisivi della vita”. Poi “serve una Chiesa che sappia immaginare un nuovo modello di credente”, quello “immaginato fin dal Vaticano II e fissato in Lumen fidei”: “colui che non solo guarda a Gesù, ma che guarda il mondo con gli occhi di Gesù”. Ancora, “serve una Chiesa che più decisamente assuma la dimensione educativa” vista l’“urgenza” che “i giovani trovino adulti ‘adulti’ e che gli adulti tornino ad imparare il mestiere dell’adulto”. Infine, “serve una Chiesa che sappia festeggiare” perché “non è possibile una Chiesa che annunci il Vangelo della gioia senza l’esperienza della festa, una cosa davvero capace di abbattere muri e creare ponti”.
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