“Della mia prima infanzia a Pyongyang ho immagini molto vivide come se vivessi lì. Credo che sia perché i miei genitori nominavano spesso i luoghi dove avevamo vissuto, come il fiume di Daedong, il ponte, Moranbong, Seongyo-ri, Pyongyang Est e la Stazione di Pyongyang”. È la voce di monsignor Peter Lee Ki-heon: oggi è vescovo della diocesi di Uijeongbu che si trova a pochi chilometri dal confine con la Corea del Nord. Ma la sua è una storia che ha il sapore del tempo. È nato a Pyongyang nel dicembre 1947. Aveva 4 anni quando nel 1951 in seguito alla guerra di Corea, fu costretto a lasciare il Paese. Il padre li aveva preceduti a Busan qualche mese prima. Poi partirono lui, la mamma e una sorella. Altre due sorelle però rimasero a Pyongyang e la madre ha sempre vissuto con il cuore spezzato. Forte, invece, nella memoria di mons. Lee Ki-heon è l’arrivo alla cattedrale di Busan dove si accamparono insieme ai rifugiati provenienti dalla Corea del Nord. Ebbe inizio una nuova vita nel Sud. Ma dall’altra parte del confine, la storia della sua famiglia conobbe il martirio.
“Quando il partito comunista di Il-Sung Kim prese il controllo del Nord, iniziarono a perseguitare i cristiani e la situazione peggiorò di anno in anno”, racconta il vescovo. Nel 1949 tutti gli ecclesiastici del distretto di Pyongyang furono arrestati e la cattedrale fu chiusa. Tutti i credenti a Pyongyang furono devastati. “Mia madre – ricorda il vescovo – era solita raccontarci la storia dei suoi coraggiosi fratelli cristiani. Tra questi c’è anche mio zio, Jae-Ho Lee, pastore della chiesa Kirim-ri a Pyongyang: il partito comunista venne e lo arrestò. Mia madre e altri cristiani protestarono. Ora, anche mio zio è nel processo per la beatificazione con altri martiri e il vescovo Yong-Ho Hong”. “Quasi tutti i compagni cristiani sono morti”, aggiunge il vescovo. “E, anche io, che ho un piccolo ricordo della mia città natale, ho settant’anni. Prima che i miei genitori morissero, mi dicevano:
“I cristiani del Nord riusciranno a mantenere la loro fede senza sacerdoti? Riusciranno a pregare senza nessun altro cristiano?”.
“Quelle domande oggi sono anche le mie domande e non ho mai smesso di pregare per loro”. Oggi il vescovo Lee Ki-heon è presidente della Commissione per la riconciliazione del popolo coreano, istituita presso la Conferenza episcopale coreana.
Come sta vivendo, eccellenza, questa pagina storica per la pace e la riconciliazione della penisola coreana?
Il cammino della pace che tutti i coreani desideravano, è cominciato. Non potevamo prevederlo fino all’inverno scorso. Sono molto speranzoso. Credo che il Signore abbia ascoltato la nostra preghiera. Tutti i coreani hanno seguito in tv gli storici momenti del summit tra la Corea del Nord e quella del Sud e il seguente incontro tra la Corea del Nord e gli Stati Uniti. Sono immagini che hanno testimoniato la possibilità di trovare una soluzione a un’ostilità che durava da 70 anni. Quanto è accaduto ci ha dato la speranza che tutti i coreani del Sud e del Nord possono avere la pace.
Penso che questo processo sia stato possibile perché Papa Francesco e anche i fedeli della Chiesa cattolica del mondo hanno pregato per la Corea.
Che notizie vi arrivano oggi dalla Corea del Nord? Avete casi di famiglie separate? Che cosa significa per loro non sapere nulla o pochissimo dei loro parenti? Sono passati 70 anni. È ancora forte il legame?
Credo che molti, anche in Europa, non conoscono la situazione della penisola coreana. Immaginano, per esempio, che ci possano essere contatti al “confine”. In realtà, è impossibile avere conferma se i parenti sono vivi o morti. Non c’è possibilità di scambiare notizie o lettere. Negli anni ‘90, quando i rapporti tra i due presidenti erano amichevoli, alcune organizzazioni e i rappresentanti religiosi erano in grado di fare alcuni viaggi. La Chiesa del Sud e del Nord potevano incontrarsi, comunicare, inviare aiuti. Negli anni più recenti però la rottura è stata quasi totale.
Credo che l’incontro delle famiglie separate debba essere una priorità assoluta.
In Corea vivono tante famiglie separate. Anche le mie due sorelle vivono in Corea del Nord. Sono passati quasi 70 anni e la maggior parte di loro sono morti. Parliamo di persone che oggi hanno oltre 90 anni. Si calcola che i sopravvissuti siano 4-5mila. Recentemente, si spera che il Sud e il Nord promuovano la riunione della famiglie separate attraverso il Comitato della Croce Rossa.
Cosa spera per i cattolici e i cristiani del Nord da questo processo di riconciliazione?
La religione non è ancora libera nella Corea del Nord. Esteriormente c’è libertà di religione ma è imperfetta e immatura riguardo soprattutto la catechesi, la liturgia e i sacramenti. Dalle informazioni, però, che abbiamo raccolto, ci risulta che qualcosa va cambiando piano piano rispetto al passato. Spero e penso che a fianco del processo di riconciliazione, occorra avviare un processo di cambiamento graduale anche riguardo al problema della religione.
La pace non può mai essere data per scontata. Vuole lanciare un messaggio a tutti i leader coinvolti nelle diverse negoziazioni?
Penso che il nostro cammino della pace che è cominciato in difficoltà, si sia potuto realizzare grazie alla fiducia e al dialogo. Credo anche che la “Dichiarazione di Panmunjom” possa dare frutti se i leader coinvolti delle due Coree comunicano tra loro con pazienza e rispetto, sulla base della fiducia reciproca.
Quale ruolo possono svolgere le Chiese?
Il presidente sudcoreano Moon Jae-in ha sottolineato il ruolo che la religione può svolgere per favorire il rapporto tra Corea del Sud e Corea del Nord. Il suo compito non è soltanto quello di promuovere l’interazione diretta ma di promuovere un clima di armonia e favorire un ambiente aperto alla cooperazione.
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