“La mia storia comincia quando avevo 6 anni, quando un giorno mia madre ci ha portati a scuola e mio padre ci è venuto a prendere. Non succedeva mai che venisse lui. E quando abbiamo chiesto dove fosse la mamma, ci disse che se ne era andata”. È il momento delle testimonianze nell’emiciclo del Consiglio d’Europa a Strasburgo, al Forum mondiale per la democrazia (19-21 novembre). A raccontare la sua storia di dolore, con incredibile fatica, lentamente ma con grande dignità e senza tentennamenti è Gabriella Gillespie. Il silenzio e l’ascolto intorno a lei sono totali. Gabriella, figlia di uno yemenita e una madre britannica è nata e cresciuta in Galles, fino a quando il padre non l’ha venduta in sposa. Aveva 13 anni.
La mamma fatta a pezzi. Ma il suo dramma era cominciato già prima. “Sono la più giovane di 4 sorelle”. Dopo dodici mesi dalla scomparsa della madre la polizia arresta il padre per omicidio. “Ma il corpo della mamma non fu mai ritrovato. Forse lo aveva fatto a pezzi e bruciato”. E ne racconta i dettagli macabri senza ostentazione. Le bambine vengono affidate a una comunità, il padre condannato a 6 anni per omicidio, e liberato dopo 4 per buona condotta. “I servizi sociali ci hanno fatto tornare ad abitare con lui. Ci hanno rimesse nelle sue mani. Poi il giorno del mio 13° compleanno siamo partite io e 2 sorelle, ci ha detto saremmo andate in vacanza e che uno zio ci avrebbe accolte all’arrivo. Era il 1977”.
Gabriella aveva comprato vestiti nuovi per fare quel viaggio, perché doveva andare in vacanza.
Atterrate in Yemen, ad attenderle lo zio insieme a uno “choc culturale indescrivibile: mio padre era di famiglia musulmana, ma non ci aveva mai educato in un contesto religioso. E lì eravamo perse, non capivamo niente. Solo uomini intorno e pochissime donne vestite completamente di nero”.
Per pagare un debito… Lo zio le chiude per alcune settimane in un appartamento, “piangevamo”. Dopo qualche settimana la sorella di 14 anni è stata venduta a un uomo che veniva dal Regno Unito e lavorava in una ambasciata. Noi mandate nel nord del Paese e poi a Mugrahba, un villaggio rurale “senza acqua, elettricità, scuole, polizia, in mezzo al nulla. Siamo state costrette a vestire lo djab e qualche volta il burka.
Obbligate a fare quello che fanno tutte le donne: prendere l’acqua al pozzo, a 4 chilometri, 5-6 volte al giorno, lavorare nei campi, fare da mangiare.
E se osavamo protestare eravamo picchiate. Qualche settimana dopo è arrivato mio padre, con mia sorella grande. Doveva pagare un debito. E così mia sorella di 17 anni è stata venduta a un uomo di 60 anni”. in realtà più avanti nel racconto Gabriella precisa anche che quella sorella era stata abusata dal padre per anni. Al terzo giorno della festa di matrimonio, la sorella si toglie la vita. “E poiché siamo donne non abbiamo potuto vegliarla, piangerla, non abbiamo potuto sapere dove è stata sepolta”.
Tanta violenza e 5 figli. “Ma non è bastato. Dopo questo, mia sorella e io sapevamo ciò che ci aspettava”. Gabriella tenta il tutto per tutto e supplica un ragazzo del villaggio di 18 anni di chiedere la sua mano al padre. Si sposano, ma dopo 6 mesi lui muore e Gabriella viene data in sposa a uno degli uomini più ricchi dello Yemen. A 14 anni arriva il primo figlio, poi altri quattro, in mezzo a violenze continue. “Ero spesso picchiata fin quasi a morire, completamente rotta”. Questo pezzo del suo dramma dura altri 17 anni: “Ci è voluto così tanto tempo per scoprire i miei diritti” e cioè che, essendo lei cittadina britannica, poteva chiedere aiuto in ambasciata. Così Gabriella scappa con i suoi 5 figli.
Ci è voluto un altro anno perché potesse lasciare il Paese con i figli perché non erano sul suo passaporto e lei come madre non aveva alcun diritto di portarli con sé.
Ma l’ambasciata l’ha protetta e aiutata a nascondersi in quel periodo. Poi finalmente il rientro, “anche se sono arrivata in Gran Bretagna senza nulla. All’epoca anche le vittime della tratta dovevano pagarsi i costi per ritornare”. Oggi non è più così, perché le Chiese in Gran Bretagna hanno fatto una campagna per cambiare queste regole, precisa. Il padre di Gabriella è morto 9 anni fa in Yemen, lei ne aveva perso completamente le tracce. Una sorella è rimasta là, dove ancora oggi “un padre ha tutto il potere sulle proprie figlie”. Però aggiunge, “dappertutto ci sono persone sane e persone non sane. Anche tra gli yemeniti. È grazie a degli yemeniti se io sono qui oggi”.
“Vedo passi avanti”. La conclusione del racconto agghiacciante è un urlo di solidarietà: “La cosa più orribile di quello che successo nel 1977 è che le cose continuano a succedere per altre giovani. Oggi lavoro con delle sopravvissute e queste cose continuano a succedere alle ragazze, e tutti i giorni mi chiedo come fare per fermarlo, se si fa di tutto per mettere una fine a questi orrori. La cosa orribile è che invece continuano”. Poi si apre il dibattito nell’emiciclo, in un clima quasi surreale. E così Gabriella aggiunge altri dettagli sulla sua storia e racconti sull’oggi. “Tutto quanto è accaduto ha avuto effetti sui miei figli e ha conseguenze oggi su ogni aspetto della mia vita. Sono cose che si trasmettono da una generazione all’altra”. Tre dei figli hanno cancellato ogni ricordo dalla loro mente, i due più grandi no.
“Non mi attacco al passato, guardo al futuro perché i miei figli sono con me e questa è una chance”.
“Parliamo dei momenti tristi, ma ne siamo venuti fuori e non sono più preoccupata per loro”. Torna a più riprese nella testimonianza di Gabriella la preoccupazione per chi oggi attraversa quello che ha dovuto vivere lei. “Per me oggi venire qui è stato molto duro, mi ha fatto male”, dice ancora. “Ma ci sono, mi guardo intorno e vedo passi avanti. Vengo da un contesto che si batte e mi batto anche io, sebbene io non abbia finito gli studi: li ho lasciati a 13 anni per andare in vacanza e non ho più potuto riprenderli perché troppo impegnata a occuparmi dei miei figli”. “Vedo dei passi avanti, mi rendo conto che altre persone come me si battono ciascuno a modo suo e mi domando come possiamo aiutare le migliaia di giovani a non arrivare al punto in cui sono arrivata io. È un lavoro enorme e sono molto preoccupata”. Perché “è insopportabile che non ci sia ancora il diritto a sposare chi si ama, che per tanti sia ancora un obbligo, una scelta imposta dalla famiglia”.
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