Di Stefania Careddu Avvenire
C’è un luogo, a Roma, dove la sinodalità sta diventando prassi, esercizio quotidiano, vita vissuta: è la comunità di San Stanislao, a Cinecittà, che da tre mesi è guidata da Andrea Sartori, un diacono che abita nella canonica con la moglie Laura e quattro figli – tre maschi di 20, 19 e 17 anni e una bambina di 10 – e che vorrebbe incidere su una targa “Casa della fraternità”.
Alla Messa e alle confessioni pensa il viceparroco della vicina San Giuseppe Moscati (con un gruppetto di altri preti che stanno offrendo la loro disponibilità), mentre il lavoro pastorale viene portato avanti con un’équipe di diaconi. «Bisogna fare una storia sinodale, sperimentando la comunione con il popolo e con la comunità ministeriale», sottolinea il diacono che, con la sua famiglia, ha intravisto in questa vocazione il modo per «andare verso Dio e verso gli uomini».
Del resto, il servizio è un filo rosso che attraversa l’esistenza di Sartori e la tesse con quella di Laura, conosciuta durante un’esperienza di volontariato con ragazzi disabili. «Prima del matrimonio – racconta – entrambi volevamo andare in missione. Così, appena sposati, abbiamo deciso di partire con i salesiani per il Togo per tre mesi per studiare la realtà e poi, con in mano un progetto che abbiamo elaborato in Italia, siamo tornati in Africa per un anno: di giorno giravamo per la Savana per formare animatori sociali che potessero essere leader nelle microimprese e di sera stavamo in una casa famiglia con 24 bambini di strada».
Che il servizio fosse la sua dimensione, Sartori l’aveva già capito, ma non pensava affatto di diventare diacono. Nel 2003 però, su invito di alcuni sacerdoti, inizia l’iter e nel 2008 viene ordinato. «Vedevo questa figura solo come qualcuno che sta sull’altare, ma ora ho capito che il vero diacono porta Gesù in mezzo alla gente: quella goccia di acqua che metto nel calice, nel sangue di Cristo, è il segno dell’umanità che raccolgo e porto a Dio», spiega Sartori che ama definire il diacono come «la mano di Gesù che tocca, si sporca e tira fuori dalla tomba».
Per dare ulteriore concretezza al servizio, Andrea e Laura pensano di «trovare un monastero dove poter fare comunità» e cominciano a parlarne con i figli. Così, quando arriva la proposta di accompagnare la comunità di San Stanislao, capiscono «che Dio, che fa bene tutte le cose, aveva preparato il terreno e che quella era per noi la conferma di ciò che avevamo intuito».
Sebbene sia una tradizione documentata a Roma fin dal VII secolo, oggi la diaconia di Cinecittà rappresenta un unicum. Inizialmente c’è stata un «po’ di perplessità, un punto interrogativo che riguardava soprattutto il cosa sarebbe mancato, visto che siamo abituati ad avere un presbitero», osserva Sartori. Pian piano però le seimila anime di San Stanislao «hanno visto che la presenza eucaristica è rimasta e che, essendoci una famiglia, i giovani hanno dei coetanei con cui stare e i genitori si sentono compresi nelle fatiche e nelle difficoltà quotidiane».
«Come tutti i papà di famiglia, anche io, che ho 49 anni, mi alzo alle cinque per andare a lavoro, so cosa significa litigare o discutere perché uno dei figli avrebbe bisogno di un paio di pantaloni nuovi ma non si ha la possibilità di comprarli», confida Sartori che si sente ripagato di tutto quando «quelli che incontro mi dicono che vogliono tornare in Chiesa». Si respira “aria nuova” e, complice una giusta dose di curiosità, «in tanti si stanno avvicinando». «È bello che la gente voglia aiutare e non solo essere aiutata», rileva Sartori per il quale «la parrocchia non deve essere solo un centro di distribuzione, ma di comunione». Per questo, dal lunedì al venerdì «proponiamo l’adorazione eucaristica, perché una comunità prima prega e poi va in missione». Come il diacono che va per le strade, nelle case. Facendosi prossimo «per pregare, ascoltare, intuire quali sono le ferite e fasciarle».
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