“E se fosse l’Europa a salvarci dai governanti nazionali?”: una battuta, colta al volo dinanzi all’emiciclo dell’Europarlamento durante la settimana di sessione plenaria a Strasburgo. Ma la boutade rischia di interpretare, in maniera essenziale, sintetica, l’attuale realtà politica di vari Paesi membri dell’Ue. A maggior ragione se pronunciata da un eurodeputato britannico – che tiene gelosamente all’anonimato –, a suo tempo alfiere del recesso del suo Paese dalla “casa comune” e ora Brexiteer (quasi) pentito alla luce di quanto accade sulla sua isola.
L’isola sempre più isolata. Il Regno Unito, dopo il referendum del 2016 in cui una stretta maggioranza di elettori si era espressa per il “leave”, si dibatte in una vera e propria crisi di identità. Sparito dalla scena il premier conservatore David Cameron, che aveva brandito il voto popolare per “lisciare il pelo” degli elettori e vincere le votazioni parlamentari, era arrivata al 10 di Downing Street l’attuale premier Theresa May. La quale, da un anno e mezzo, non si occupa d’altro che di Brexit, mentre il Paese rallenta la crescita economica, mostra evidenti lacerazioni sociali, oppone inglesi a scozzesi, nordirlandesi a irlandesi del sud, irlandesi a inglesi. I milioni di cittadini stranieri che vivono sull’isola sono fortemente preoccupati del loro futuro, aziende e multinazionali basate a Londra o Liverpool o Birmingham temono che l’uscita dall’Ue e dal mercato unico ostacolino i loro affari.
E la rabbia monta fra le stesse classi popolari e tra gli anziani che in larga misura erano stati artefici del Brexit:
non vedono risultati tangibili, temono per il posto di lavoro e per le pensioni, nutrono un’avversione crescente verso il “palazzo” e verso l’Europa continentale. Dall’altra parte l’Ue ha serrato i ranghi: chi temeva, dopo il referendum sul Brexit, una fuga dall’Unione oggi si rimangia le profezie. E l’accordo siglato per il recesso – che sta paralizzando Westminster – sembra l’unico che l’Unione europea è disposta a concedere a Londra. Magari nei prossimi giorni prevarrà una sana volontà di venirsi reciprocamente incontro, ma intanto Theresa May è data politicamente per spacciata. Da Strasburgo è il capogruppo dei Popolari, il tedesco Manfred Weber, a sentenziare: “Cosa ci dice il Brexit? Che è meglio riformare l’Unione europea piuttosto che lasciarla”. Nel frattempo il presidente del Consiglio europeo Donald Tusk inserisce il Brexit fra i temi del summit di questa settimana (13-14 dicembre), e ribadisce: “Non rinegozieremo l’accordo e in particolare il backstop”, che riguarda il confine tra le due Irlande, “ma siamo pronti a discutere su come facilitare la ratifica del Regno Unito. Il tempo sta finendo”.
Gilet di Parigi e della Francia periferica. Se il Regno Unito viaggia in cattive acque, la Francia non è da meno. Da settimane i gilet gialli, simbolo della protesta popolare, invadono le strade di Parigi e di innumerevoli città, manifestando dapprima contro l’ecotassa sui carburanti, per poi estendere la protesta contro il caro-vita, il modesto livello dei salari più bassi, la distanza crescente tra – dicono – “chi ha tutto e chi ha niente”. I gilet rappresentano, come ha spiegato il geografo e sociologo Christophe Guilluy, la “Francia periferica”, quella dimenticata dalle alte sfere, quella che “lotta contro l’invisibilità”:
gli esclusi dalla globalizzazione che non trovano altra modalità per far sentire la propria voce che riempire le strade e, se occorre, usare la forza.
Del resto i favori fiscali concessi dal governo ai detentori dei grandi patrimoni ha fatto ulteriormente montare la rabbia. Così lunedì 10 dicembre il presidente della Repubblica, Emmanuel Macron, si è sentito in dovere di parlare alla nazione a reti unificate. Ha chiesto scusa per i suoi errori, per aver sottovalutato le richieste della piazza, per “aver ferito molti con le mie parole”. “La collera è giusta”, ora “servono misure profonde”. Per evitare nuove proteste (spesso degenerate in colpevole violenza) ha promesso un flusso di soldi e di interventi – riforme e sussidi calcolati in 8-10 miliardi – proprio per andare incontro alle fasce sociali più esposte e povere. Una capitolazione dunque, una seppur intelligente ammissione di miopia politica, un tentativo, quello di Macron, di recuperare la fiducia dei cittadini e, allo stesso tempo, di spaccare in due il già articolato movimento dei gilet.
Focolai che attraversano il continente. I casi inglese e francese non sono però gli unici in Europa che vedono i governi assediati e costretti a venire a più miti consigli. Basterebbe pensare alle manifestazioni popolari recentemente registrate in Romania e Bulgaria (per ragioni e in situazioni assai differenti); al malcontento che continua a serpeggiare nell’impoverita Grecia; a non trascurabili focolai di malessere presenti in Spagna e Germania o in altre regioni del continente.
Non da ultimo, c’è il caso dell’Italia: la manovra presentata a ottobre è fuori dalle regole dell’Eurozona e soprattutto non risponde a una visione di stabilità finanziaria, di sostegno alla crescita di lungo periodo e al lavoro dei quali necessita il Paese.
La Commissione ha fatto il suo lavoro: ha richiamato le regole che l’Italia stessa ha sottoscritto e che ora rischia di infrangere. Mentre qualcuno da Roma alzava la voce contro Bruxelles, altri esponenti dello stesso governo tessevano invece la trama di un accordo che evitasse la procedura d’infrazione. La quale esporrebbe l’Italia a una perdita di credibilità, scuoterebbe i mercati, farebbe perdere ulteriore valore ai risparmi già segnati dallo spread. Se c’è chi, sempre a Roma, ha affermato che non si sarebbe occupato “dei decimali” (riferendosi all’eccesso di deficit prodotto dalla stessa manovra finanziaria), ora dei decimali occorre occuparsi, eccome. Altrimenti la manovra non passerà al vaglio dei ministri Ue, consesso nel quale il governo italiano si trova isolato. “Non pagheremo per l’Italia”, ha dichiarato – senza troppi giri di parole – il premier austriaco Sebastian Kurz, attuale presidente del Consiglio dei ministri dell’Unione europea. A ruota lo hanno seguito tutti gli altri Stati dell’Unione.
Questione di buon senso. Ecco, ragionevoli soluzioni a questi problemi si trovano se e quando i leader politici sanno fare marcia indietro. Marcia indietro sulle rigidità del Brexit, marcia indietro rispetto alla linea di chiusura adottata verso i gilet gialli, marcia indietro rispetto a una manovra finanziaria bocciata dai mercati prima ancora che dall’Europa.
Non è questione di colore politico, è questione di buon senso.
Si tratta di governare per il bene dei cittadini, con lo sguardo fisso al futuro del proprio Paese, alle generazioni di domani oltre che a quelle di oggi, e non al prossimo sondaggio. Bando alle inutili promesse, avanti con progetti e risultati concreti che costruiscano futuro.
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