Quando Ruth Zimbler ha sentito le notizie sulla sparatoria nella moschea di Pittsburg il suo pensiero è corso a Vienna, alla sua amata sinagoga, quella che nella Notte dei cristalli venne incendiata assieme ad altre 41 tra il 9 e il 10 novembre 1939: l’inizio della devastante furia antisemita di Hitler, condotta con chirurgica precisione dal suo gerarca Adolf Eichmann. Ruth aveva compiuto dieci anni e suo fratello Walter appena cinque. Ancora oggi a distanza di 80 anni, l’olezzo del fumo, l’odore della morte e della distruzione non riescono a cancellarsi dalla sua memoria: “Le fiamme erano più alte del tetto e i pompieri erano impegnati a che non si propagassero nelle case vicine. Noi abitavamo nel comprensorio attaccato alla sinagoga e dalla strada vedevamo bruciare la nostra memoria: gli ornamenti, i libri sacri, gli oggetti cari”.
Tutto doveva essere distrutto e vandalizzato, inclusi i negozi e le abitazioni.
Gli ebrei vivevano a Vienna da 400 anni e da un giorno all’altro si erano ritrovati nemici, deportati, indegni. “Quella notte e nei gioni a seguire 30mila tra uomini e ragazzi furono strappati dalle loro famiglie e gran parte di loro vennero trucidati”, racconta Ruth, mentre ricorda che anche il padre e la governante vennero portati a forza nel campo di Dachau. La donna perché austriaca venne rilasciata dopo poche ore, mentre il padre venne trattenuto per tre giorni fino a quando le autorità tedesche capirono che poteva essergli utile perchè, come impiegato, sapeva compilare i documenti che autorizzavano gli ebrei a lasciare il Paese e lui stesso promise alle SS che avrebbe lasciato l’Austria al più presto.
Ruth ricorda che la mattina di quel 9 novembre, con la madre e il fratello, erano fuggiti nel bosco, sopra la città.
Gli anziani della comunità avevano saputo di un imminente e tragico evento e avevano consigliato di mettere in salvo i bambini. La sera, i tre sfollati avevano deciso di tornare a casa in tram, quando l’autista che ben conosceva cosa era successo a Vienna, aveva gridato alla madre: “Sei ebrea e quindi te lo meriti”. Cosa si meritavano? Da quella primavera nessun bambino austriaco giocava con Ruth e Walter; il maestro preferito era arrivato con una svastica sulla giacca, il bibliotecario aveva smesso di lasciarle consultare i libri dicendole:“Sei un ebrea”. Ruth ebrea lo era sempre stata, cosa aveva cambiato la sua condizione in così poche settimane? “Un giorno stavo giocando con la mia migliore amica, quando un uomo con una giacca di pelle entrò nel nostro appartmento e chiese la chiave della biblioteca della sinagoga. La nostra governante gliela diede e dopo un pò di ore, lo abbiamo visto tornare con i libri più antichi e preziosi della nostra collezione, tra le sue braccia. Negli anni ’60 ho rivisto quell’uomo sui giornali. Era stato catturato in Argentina. Si chiamava Adolf Eichmann, uno dei maggiori responsabili dello steminio”. Anche quel volto non si è cancellato dalla mente di Ruth, che non ha dimenticato neppure un dettaglio del viaggio sul Kindertransport, il treno per i bambini che nel dicembre del 1938 condusse migliaia di loro in Olanda e in Gran Bretagna, dove si stavano allestendo campi per i minori perseguitati.
“Nel tragitto verso la stazione siamo passati nel cortile tra la sinagoga e il nostro appartamento e poco prima di giungere al casello ferroviario, la zia mi ha detto: ‘Bacia queste pareti perchè non le rivedrai più’”.
E così è stato perché oggi al posto della sinagoga c’è un grande parcheggio ed è quello che anche Ruth, da stilista affermata e da attivista, ha visitato assieme alla figlia qualche anno fa. Giunti in Olanda, i due minori vennero accuditi, rivistiti e iscritti ad una scuola, mentre il sabato una famiglia ebraica li invitava a celebrare lo Shabat. Da quel momento con i genitori inizia un fitto carteggio: ogni sei settimane una pila di fogli partiva verso Vienna e un’altra arrivava vicino l’Aia.
Il 16 ottobre 1939, i due bambini si imbarcano per gli Usa: il padre era riuscito ad ottenere i visti, corrompendo tutti i funzionari possibili. Li aveva salvati. “Quando dopo dieci giorni di nave ho visto la Signora in verde (la Statua della libertà) nel porto di New York, ho capito che la nostra vita di prima era definitivamente chiusa”, continua Ruth che aveva in mano appena 2 dollari e 40 cents e una zia sconosciuta che li attendeva sulla banchina. Lo strazio più grande era quello di non poter rivedere i genitori. Le promesse costanti di rincontrarsi in sei settimane, scritte con l’ichiostro, appartenevano all’altra sponda dell’Oceano e non all’America. Sentimenti di angoscia, smarrimento, paura davanti ad un Paese di cui non conoscevano nulla e neppure la lingua: “Io capisco i bambini che si trovano al confine. Io so cosa provano perchè anche io ho vissuto la loro esperienza”. Ruth non divaga ma mi riporta dal passato al presente. “Quando dicono che sono morti sei milioni di ebrei, la gente non capisce, ma poi mi vedono e mi ascoltano e allora capiscono che siamo persone e non numeri e che di fronte alle ingiustizie bisogna alzare la voce, non importa la razza, la fede, il Paese: è sempre un attentato all’umanità. Anche i bimbi al confine non sono numeri, ma sono reali e hanno diritto di stare con le loro famiglie”. Un diritto diventato reale anche per Ruth e Walter, che dopo 11 mesi e 8 giorni sono ritornati al porto, con in mano 2 dollari e 40: tutto il capitale della loro ritrovata famiglia.
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