Andrea Casavecchia

Un tema che periodicamente si affaccia nelle cronache dei dibattiti pubblici è il lavoro delle persone nei giorni festivi. Non sembra, ma è un tema caldo per molti. Appena si affaccia una proposta per circoscrivere le aperture dei negozi tornano gli opinionisti che illustrano le ragioni a sostegno della possibilità di lasciare le serrande alzate: si aumenta il Pil, crescono i posti di lavoro, si creano opportunità di guadagno sono quelle più gettonate.
Sono circa 5 milioni i lavoratori dipendenti coinvolti, secondo i dati Eurostat riferiti al 2017. Per avere un’idea è circa il 20,7% del totale dei lavoratori, circa un quarto di questi coinvolti nell’apertura dei negozi. Sul totale dei dipendenti il 71,8% di questi ha una frequenza alta di festività “soppresse”. All’interno del gruppo ci sono persone che lavorano con turni, con tutele e flessibilità di orari, altre persone che sono prese per brevi periodi o solamente per le festività: in quei casi è più difficile incontrare tutele o turni. Quest’ultimi non solo non hanno possibilità di scelta, ma sono anche scarsamente remunerati. La stragrande maggioranza dei “più deboli” è nei contratti del commercio. Qui emerge uno dei problemi: forse tenere aperto le domeniche aumenta il numero degli occupati, ma non incide sulla creazione di lavoro buono.
Un altro elemento che contribuisce a fare chiarezza riguarda le prospettive di consumo. Una ricerca del Censis evidenzia che il 70% degli italiani afferma che nei prossimi 12 mesi non aumenterà la spesa per i consumi. D’altronde – si osserva – il potere d’acquisto delle famiglie non ha ancora raggiunto i periodi precedenti alla crisi del 2008.
In questo contesto risulta difficile credere che lasciare aperti i negozi alimenti la crescita economica e dell’occupazione. Altro discorso è il sostegno offerto alla grande distribuzione per competere con i giganti del e-commerce, ma si tratta di un gioco in difesa.
Forse il rapporto tra festa e lavoro andrebbe ricostruito in modo diverso. Bisognerebbe passare innanzitutto da una logica individuale a una collettiva. A partire dalla proposta di un lavoro dignitoso che rispetta le persone e le comunità, perché vivere la festa non è solo un diritto dell’individuo, ma il tempo in cui si intrecciano relazioni e si costruiscono legami sociali. Lavori sempre più frammentati e proiettati su obiettivi faticano a creare cultura della solidarietà, che invece potrebbe trarre nuova linfa proprio dalla cura dei rapporti comunitari.

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