Di Pietro Pompei
DIOCESI – Su richiesta del Direttore Incicco mi accingo a rivisitare i Sacerdoti defunti che hanno avuto una parte importante nella mia vita.
Non vuol essere una biografia ma un memento di gratitudine. Una rivisitazione tutta personale e aneddotica.
La bontà de lu Curate, don Francesco Traini, era nota, così pure la sua disponibilità ad ascoltare quanti si rivolgevano a Lui per una richiesta di aiuto o per un consiglio. Tuttavia non era solo questo. Per conoscerlo meglio bisognava stargli vicino, interrogarlo. Allora ti sorprendeva, perché , all’apparenza, non sembrava interessarsi di altri problemi che non fossero quelli che, solitamente, attribuiamo ad un sacerdote. L’amore per la parrocchia, di cui era titolare, lo portò ad interessarsi della storia della stessa e a quella del nostro Santo Patrono. Veramente con lui, si può dire, che continua la memoria storica di molti parroci precedenti che ci hanno lasciato interessanti studi e ricerche. La dove la documentazione manca, lu Curate faceva appello alle sue conoscenze, mettendo a frutto le continue consultazioni che Egli aveva con gli storici Enrico Liburdi, Giovanni Guidotti, Francesco Palestini. Era un piacere ascoltarlo, quando i ricordi di un immediato dopo-guerra disastroso si erano fatti esperienza, vissuta tra stenti, sacrifici e, purtroppo, anche incomprensioni. L’intercalare dell’italiano con il dialetto, rendeva tutto più genuino e all’ascoltatore che mostrava meraviglia per la ricchezza del suo vernacolo, lu Curate ricordava orgogliosamente le sue origini marinare. Era solito dire che il mare l’aveva sentito prima di nascere, quando la madre andava ad aiutare il marito sulla lancetta, nonostante la sua gravidanza.
Questa origine autoctona lo portò a comprendere tante situazioni, impedendo una diaspora che avrebbe allontanato dalla Chiesa tante forze giovanili. E il suo vissuto lo aiutò a capire la tragedia dei funai rimasti senza lavoro, che, se pur misero, dava modo di campare, nel passaggio dalla lavorazione della canapa al nailon. Con l’aiuto dei suoi collaboratori, riattivò quelle mense che nel dopo-guerra mise a disposizione dei poveri. Quante povertà segnalò come consigliere dell’ECA e quanto amore profuse verso gli ospiti dell’ Ospizio dei vecchi, che visitava giornalmente.
Ricordo come in un incontro conviviale, un importante personaggio della nostra città, non credente e indifferente verso la Chiesa, stupì tutti definendo don Francesco “un prete vero”.
Lu Curate, spesso, lo trovavi con la corona in mano o intento nella lettura del breviario oppure assorto nell’adorazione Eucaristica.
Mi confidava che la sua forza era tutta nella preghiera. Fu felice e si commosse, quando, nei miei primi tentativi di poesia in vernacolo gli lessi : “ Le zòcche de la curòne” e spesso me li ripeteva. Gli ultimi anni, quando le forze gli vennero meno e faceva difficoltà a camminare, era sempre sintonizzato, nelle ore del S.Rosario, su Radio Maria e si univa a quanti erano in ascolto e pregavano come Lui. Nelle nostre visite, tra una conversazione e l’altra, c’era sempre uno spazio per pregare.
La venerazione verso Padre Giovanni dello Spirito Santo l’accompagnò sempre ed era rattristato nel non poterlo annoverare tra i beati. Aspettava quel miracolo che sarebbe stato decisivo. Una volta passando davanti alla sua tomba lo sollecitò con tono scherzoso e in sambenedettese: “ Che stì fa sa ssó, stì a zerllà?”. Poi aggiunse: “ Anche a Giacomino, piaceva parlare in dialetto”.
Sor Curà, il nostro grazie è poca cosa nei confronti di quanto hai fatto per noi. Nel tuo ricordo ripropongo quei versi che tanto ti piacquero.
Le zòcche de la curòne
So cercate le zòcche de le lacreme
a ône a ône
mmènze stu mare ndrevedàte,
so fatte nà curòne
da mètte su lu culle de la Madonne de la maréne.
Le poste de lu resarie
so cuntate,
me manchì sòle na zòcche
pê fâ na decéne,
sotte lu quadre de la Madonne la so trevate.
Le lacreme de le matre jè totte ‘guale,
cj à tótte lu stesse sapore de sale.
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