Una carità che veicola buona cultura attraverso il dinamismo e l’innovazione. Operatori e volontari che agiscono sul territorio come “artisti della carità”, con l’obiettivo di produrre un cambiamento positivo nella società. In un tempo di manipolazione e false verità in cui il lavoro delle Caritas, soprattutto sulla questione migranti, è spesso sotto attacco “il pericolo grande è quello della manipolazione evangelica”. Ce ne parla don Francesco Soddu, direttore di Caritas italiana, al termine del 41° convegno delle Caritas nazionali, che si è svolto dal 25 al 28 marzo a Scanzano Jonico, nella diocesi di Matera-Irsina. Quattro giorni di confronto sul tema “Carità è cultura”, con oltre 522 partecipanti. Nelle conclusioni don Soddu ha ricordato: “Una carità che vuole esprimere, plasmare e veicolare una buona cultura lo può fare solo se produce cambiamento”. Da qui l’esigenza di una carità “interna, concreta, politica, ecologica, europea, educativa”.
La carità è ancora capace di generare cultura nella società contemporanea?
Ci siamo messi in un percorso riprendendo il bandolo della matassa di tutti i valori europei. Ci siamo posti anche il problema del connubio carità e cultura: qual è veramente la carità che genera cultura e la cultura vivificata dalla carità. Abbiamo cercato di imboccare un altro sentiero: la carità per noi è cultura. Il cristiano non può vivere senza una cultura che sia carità. Ci siamo posti il problema: come mai davanti ad una cultura che dice apertamente il contrario la nostra testimonianza della carità non riesce a permeare la cultura odierna?
A volte non riesce nemmeno a permeare le stesse comunità cristiane, divise su temi come la povertà e i migranti…
Ultimamente siamo spettatori della delega, ossia demandare ad altri ciò che è richiesto al cittadino e al cristiano. La carità è innanzitutto relazione. Nella misura in cui questa relazione è scambiata per gesti sporadici o cose concesse genera squilibri e isole, a cominciare dalla persona stessa che è disconnessa con se stessa e le persone accanto. Oggi più che mai ci si rende conto che è urgente. Perché venendo a mancare questa cultura manca l’essenza stessa del cristianesimo.
È un momento di difficoltà per le Caritas?
Direi che le Caritas sono sempre invase da diverse problematiche. La principale è questa perché ne va della sua sussistenza. La Caritas evidenzia le bellezze e la problematicità della conduzione della pastorale ordinaria. In essa si tocca il polso della situazione.
C’è qualcosa che possono fare i media?
Secondo me sì. Molto dice la comunicazione in quanto tale. Spesso ciò che passa è la brutta notizia, la notizia eclatante. Ciò che invece è bene non fa notizia. La strategia nella comunicazione deve essere reinventata in modo tale che la cultura della carità sia vista in maniera diversa anche nei mass media.
Di fronte a certe narrazioni tossiche quali sono gli antidoti?
La tossicità viene inoculata e, in certi casi, ci sembra di essere messi all’angolo. Ma il cristiano deve uscire da quest’angolo per capire se stare nell’atteggiamento dei vinti oppure mettersi a riflettere e orientarsi verso un modo positivo di essere cristiani. Chiedersi, cioè, se quello che stiamo facendo costruisce veramente comunione e comunità o ha generato qualcosa che ha disgregato. Rimangono interrogativi aperti e ripropongono la domanda di fondo:
persone che si illudevano di fare del bene oggi agli occhi della gente fanno business.
In questa situazione di crisi la Caritas sperimenta la resilienza?
La crisi nella testimonianza cristiana c’è sempre stata: nel Vangelo è scritto “guai, se diranno bene di voi”. Questo non vuol dire ritirarsi tutti ma interrogarsi se stiamo portando avanti la testimonianza del Vangelo. Oppure se gli interessi sono quelli della comunità. Se sappiamo veramente accogliere, integrare e relazionarci con il povero per generare semi di fraternità nella comunità.
La più grande povera in questo momento è la comunità, che è disgregata.
Allora ritorna forte appello di Papa Francesco: se una comunità cristiana non si interessa dei poveri, corre il rischio di disgregare se stessa.
Quante volte vi sentite dire: “Prima gli italiani”?
Il prima o il poi riguarda sempre ragionamenti egoistici.
Non esiste nessuna priorità davanti all’umanità. Se in quel momento l’umanità ha bisogno di qualcosa io la aiuto.
Non esistono priorità studiate a tavolino. Nella misura in cui si fa una cosa del genere si inizia già con una falla iniziale che porta con sé altre fallacità. La logica insegna questo.
A livello comunicativo, nell’opinione pubblica, c’è poi un problema di manipolazione delle verità…
La comunicazione deve battere su quelle che sono le verità. Bisogna sempre illustrare tutte le opinioni ma se una verità è trasformata già all’origine come si fa a poterla orientare bene? La Cei, attraverso lo Statuto, ha consegnato alla Caritas l’impegno per cercare di promuovere leggi giuste e buone secondo la Costituzione.
Invece la politica spesso divide.
Papa Francesco ha richiamato l’impegno della buona politica con la P maiuscola. Come il Vangelo, che non può essere brandito per altri scopi. Gesù si è fatto povero e ha scelto la povertà: se si crea una giustificazione, si sta costruendo un altro vangelo. E oggi le alchimie sono tante.
Il pericolo grande oggi è quello della manipolazione evangelica.
Dobbiamo essere veri, autentici, andare al cuore del Vangelo e della carità.
La Caritas è preoccupata per le strumentalizzazioni del Vangelo a fini elettorali?
Siamo preoccupati quando il Vangelo è strumentalizzato per qualsiasi fine. Fra vent’anni diranno: “Come hanno fatto a cadere in un tranello come questo?” La storia precedente ha insegnato qualcosa? Ne verremo fuori, certo. Ma a quale prezzo?
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