Si è celebrato venerdì 12 aprile, presso la sede centrale della Facoltà teologica del Triveneto, il convegno conclusivo di un progetto di ricerca triennale sul tema della sinodalità, promosso dal Servizio nazionale per gli studi superiori di teologia e di Scienze religiose della Cei e realizzato grazie alla collaborazione di sette istituzioni accademiche presenti sul territorio italiano. Questo appuntamento, cui è stato dato come titolo “Sinodalità: una chiesa di fratelli e sorelle che camminano e decidono insieme”, ha visto la partecipazione di circa 450 persone, che hanno seguito i 7 interventi in programma e preso parte ai laboratori pomeridiani di approfondimento tematico. Il senso del convegno, come ha ricordato Riccardo Battocchionell’introduzione ai lavori, è stato quello di una sorta di restituzione simbolica all’intero popolo di Dio delle principali acquisizioni maturate via via durante la realizzazione del progetto stesso. È stata, senza dubbio, un’occasione che ha messo in luce, una volta di più, la posta in gioco alta che la questione della sinodalità propone in relazione alla vita della Chiesa. Essa, è stato detto, deve appartenere al modus vivendi et operandi del popolo di Dio, dal momento che riflette l’esercizio costante a cui l’intero corpo ecclesiale è chiamato, vivendo in modo sinodale la propria missione nella storia. Trattandosi di questo, non può bastare, come ha affermato Piero Coda nella relazione d’apertura del convegno, una sorta di “adeguamento cosmetico” che dia soltanto una parvenza esteriore di sinodalità ad un soggetto che, in fondo, ha ancora da camminare per fare proprie le consapevolezze e le dinamichespecifiche di un vivere e agire sinodali.
Poiché ciò di cui parliamo rappresenta, prima di ogni altra cosa, uno stile di Chiesa, non c’è dubbio che, sciolta ogni esclusiva identificazione tra l’esercizio della sinodalità e lo strumento del sinodo, sia necessario individuare le vie prioritarie che conducono a riconoscere la sinodalità quale metodo di vita e di governo nella Chiesa.
Non ho alcun dubbio sull’importanza e sulla necessità della celebrazione dei sinodi. Allo stesso tempo, però, non sono del tutto convinto che un sinodo da sé possa essere sufficiente a rendere sinodale tutta la Chiesa. Soprattutto se il processo di preparazione a quell’evento e quello di recezione, che deve seguire, difettano proprio dell’elemento più importante, vale a dire il reale coinvolgimento dell’intero soggetto ecclesiale. L’impressione è che ci sia bisogno, in tal senso, di una formazione specifica alla sinodalità. Questo è un elemento per nulla scontato, anzi. È chiamato in causa, infatti, l’insieme dei percorsi formativi che, nella Chiesa, abilitano a svolgere un compito, a tradurre un carisma in ministero, ad esprimere una partecipazione responsabile alla missione del Noi ecclesiale. A titolo esemplificativo e per trovare un riscontro di quanto si va dicendo, sarebbe sufficiente misurare il grado di sinodalità, che si esprime sovente nella pratica di alcuni organismi di partecipazione: si avrebbe, così, un quadro piuttosto lucido di una sorta di deficit di consapevolezze e, talvolta, anche di strumenti in grado di rendere praticabile lo spirito e il metodo sinodali. Gli stessi segnali provengono anche da altri ambiti della vita ecclesiale.
Fuori da ogni stravagante e sprovveduta improvvisazione, le nostre comunità cristiane in questo tempo, per essere realmente sinodali, devono diventare luoghi in cui ci si esercita all’ascolto reciproco, al riconoscimento dell’autorevolezza della parola altrui, a relazioni mature, a scelte compiute insieme.
Tutto questo chiede la pazienza dei tempi lunghi e talvolta lenti, la cura per un accompagnamento delle comunità verso l’appropriazione di uno stile nuovo, la fatica di trovare strumenti capaci di rendere maggiormente ecclesiali gli stessi processi decisionali. C’è bisogno di tempo! Sicuramente più di quello che serve per organizzare e celebrare un sinodo. Non sarà, però, tempo perso.
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