“Preoccupazione per la scelta delle autorità competenti (israeliane) in materia di immigrazione di espellere dal Paese madri filippine e i rispettivi bambini” è stata espressa dagli ordinari cattolici di Terra Santa in una nota firmata tra gli altri da mons. Pierbattista Pizzaballa, amministratore apostolico del Patriarcato latino di Gerusalemme, dal custode di Terra Santa, padre Francesco Patton, e da padre Rafic Nahra, vicario patriarcale per la pastorale dei migranti e dei richiedenti asilo in Israele. Con loro mons. Yousef Matta, arcivescovo greco melchita di Akka, e mons. Moussa el-Hage, arcivescovo maronita di Haifa e Terra Santa, e i vicari patriarcali per Gerusalemme e Palestina, mons. Giacinto-Boulos Marcuzzo, e per Israele padre Hanna Kaldani. Nel testo i firmatari rimarcano che “benché si tratti di lavoratori stranieri che hanno perduto il proprio status e il permesso di soggiorno in Israele, non si può ignorare la condizione particolare in cui versano tanto loro quanto i loro figli nati nel Paese”. Gli ordinari cattolici ricordano che si tratta “di donne arrivate qui per rispondere a una esigenza della società israeliana. La maggior parte di loro è infatti impiegata in lavori indispensabili e in condizioni non semplici: assistenza ad anziani o ad ammalati cronici, lavori domestici e pulizie, con orari di lavoro lunghi e faticosi. I loro figli, nati qui, vengono istruiti nelle scuole israeliane, parlano, studiano e giocano in ebraico, amano lo Stato d’Israele e vedono in esso il proprio posto e il proprio futuro”. Da qui la denuncia: “Oggi come oggi, queste donne vengono poste davanti ad una scelta tra il continuare il proprio impiego e la realizzazione del proprio diritto alla maternità. La prassi prevede infatti che venga loro ritirato il visto in seguito alla gravidanza – se decidono di tenere il bambino con loro in Israele, e che si prosegua alla loro sostituzione con altre donne straniere”. “Ci domandiamo – affermano gli ordinari – se una tale politica rispetti davvero il contributo apportato dal loro infaticabile lavoro alla società israeliana. Non è vero che questa politica mette in difficoltà sia queste donne sia i loro datori di lavoro?”. “Per quanto riguarda i bambini, relativamente pochi, nati e cresciuti qui, che provano un forte senso di appartenenza allo Stato d’Israele (una parte dei quali non ha addirittura nemmeno i requisiti per ottenere la cittadinanza nel proprio Paese di origine!) ci chiediamo – conclude il testo – se non si possa usare loro misericordia e dar loro la possibilità, in particolari condizioni, di continuare la propria vita nella loro terra natia”.
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