Massimo Giraldi e Sergio Perugini
“Mio fratello Carlo”. Si intitola così il nuovo romanzo di Enrico Vanzina (HarperCollins 2019), il racconto di un viaggio tra due fratelli speciali, appunto Carlo ed Enrico, che hanno condiviso la vita e il set – il primo regista e il secondo sceneggiatore – fino all’estate del 2018, quando un brutto male ha portato via Carlo all’età di 67 anni. E questo viaggio tra alti e bassi della malattia, durato un anno, è stato messo su carta da Enrico, non come un percorso di elaborazione ma mosso dal desiderio di omaggiare quel fratello tanto amato, così noto al grande pubblico per gli oltre 40 anni di carriera e più di 50 film, ma anche tanto riservato nel privato. Un romanzo che si discosta dalla dimensione del lutto per trasformarsi in un inno alla vita e alla famiglia. Il Sir, con la Commissione nazionale valutazione film della Cei, ha incontrato lo scrittore Enrico Vanzina in occasione della 14a Festa del Cinema di Roma.
La Festa del Cinema di Roma ricorda suo fratello Carlo con il doc “Carlo Vanzina. Il cinema è una cosa meravigliosa” di Antonello Sarno. Come vive questo ricordo?
La affronto normalmente. Carlo con il mondo di Medusa – che produce il film di Antonello Sarno, presentato all’Auditorium Parco della Musica venerdì 25 ottobre – ha avuto un rapporto lunghissimo; mi sembrano le persone più giuste per fare un ricordo filmato di Carlo. Io sono stato intervistato e ho raccontato molti aneddoti. Se ci penso meglio, percepisco questo momento come
un omaggio allegro, bellissimo, per Carlo, non come un’occasione triste.
Un’opera che renderà giustizia al suo lavoro, ma soprattutto alle sue qualità umane, come emerge anche dalle testimonianze di quanti hanno collaborato con lui, con noi.
Parliamo dunque del suo libro, “Mio fratello Carlo”, che lei definisce “romanzo”. Nelle note conclusive però fa pensare più a una biografia. Come affrontare la lettura?
Non è assolutamente una biografia. Di fatto racconto solo l’ultimo anno di vita di Carlo, quello in cui stava male. Ho fatto una scelta precisa. Con la casa editrice abbiamo deciso di chiamarlo “romanzo”, perché
se noi togliamo il cognome Vanzina rimane semplicemente la storia di Carlo, che come tanti ha dovuto affrontare un problema universale, la malattia. È la testimonianza, la cronaca a volte spietata e dolorosa, altre commovente, degli ultimi mesi di vita di un uomo che sa che sta per morire.
Attraverso queste pagine Carlo è diventato personaggio – lui che nella vita ne ha inventati così tanti! –, raccontato in ogni suo aspetto: dalla sua leggerezza alla grande dignità, dall’intelligenza acuta a quel suo modo speciale di affrontare la vita. In fin dei conti, è come un film: è il film di Carlo che se ne va…
Lei sottolinea nelle pagine: “Ho scritto il libro piangendo dalla prima riga all’ultima. Ho pianto rileggendo. Piangerò quando ne dovrò parlare in pubblico…”. Questo stato emotivo come ha influito sulla scrittura?
Io non volevo scrivere questo libro. Sono stato assalito da una spinta, da una pressione inarrestabile. Come se fosse stato Carlo a chiedermelo. L’ho fatto inizialmente controvoglia, ma mentre procedevo ne ho compreso l’urgenza e la necessità. Poteva essere prezioso per tanti, a cominciare da me.
Il venire meno di una persona può essere non solo una perdita ma anche un’acquisizione; ancora, si può affrontare la morte compiendo un inno alla vita.
Le emozioni che si vivono attraverso queste pagine sono sì un colpo al cuore, ma alla fine, girando l’ultima pagina, si sente che il cuore ne trova beneficio. Alla fine fa bene.
Il libro è un viaggio tra fratelli, il vostro lungo sodalizio iniziato sulle orme di papà Steno. Quali i ricordi cui è più legato?
Di certo due immagini dall’America. La prima quando giravamo “Sognando la California” del 1992: eravamo alla Monument Valley su due cavalli e ci sentivamo davvero dentro un film western. La seconda cartolina viene dal set del film “Mai Stati Uniti” del 2013, quando ci siamo fatti fotografare sotto il Monte Rushmore, richiamando nella nostra mente il film di Alfred Hitchcock “Intrigo internazionale” del 1959; lì ci siamo detti che probabilmente stavamo girando un film negli Usa proprio per essere là, su quello stesso set. Infine, l’ultimissima immagine che porto con me riguarda l’inaugurazione della mostra per i 100 anni dalla nascita di nostro padre Steno, Stefano Vanzina, alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma. In quell’occasione, senza parlarci, ci siamo detti solo con lo sguardo che avevamo realizzato una cosa bellissima per papà.
Molto commovente è la descrizione dell’incontro che lei ha avuto con Papa Francesco. Cosa ci può dire di quel momento?
Facevo parte del gruppo del Premio Biagio Agnes. Simona Agnes ha introdotto ciascuno dei presenti al Santo Padre e quando mi sono trovato davanti a Papa Francesco ho sentito una stretta al cuore. Un’emozione che ancora oggi non riesco a descrivere.
Mi sono avvicinato e ho detto al Papa di mio fratello, di Carlo, che era malato, che stava morendo. Ho chiesto che pregasse per lui. Papa Francesco mi ha stretto la mano in un modo incredibile, indefinibile, e mi ha fatto dono di un rosario, che ho consegnato poi a Carlo. Mio fratello ha tenuto in mano quel rosario fino all’ultimo istante.
È stata l’emozione forse più forte della mia vita…
Tra le sue pagine ricorre spesso il riferimento alla preghiera. Quanto e come è stata di aiuto per Carlo?
Carlo è stato sempre molto credente. Era riservato, ma molto credente. Era devoto a santa Rita e si recava al santuario due volte l’anno.
Mio fratello aveva un rapporto coriaceo con la fede: ha sempre creduto, ha creduto fino alla fine, nonostante la sofferenza.
La morte spaventa, fa venire dubbi, ma Carlo non ha mai perso la fede.
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