“La Turchia persegue da tempo una politica tendenzialmente egemonica che si è data anche uno strumento di coordinamento con quelle che possono essere considerate le diverse ‘anime’ della ‘turchità’”. Dal 2006 esiste infatti il Consiglio turchico (Turkic Council in inglese) “che riunisce con le modalità della Lega araba le nazioni di lingua turca o con prevalenza di essa al loro interno: Turchia, Azerbaigian, Kazakistan, Kirghizistan, con Turkmenistan e Uzbekistan che attendono di fare il loro ingresso nell’organizzazione”. A spiegarlo al Sir è Piero Graglia, docente di Storia dell’integrazione europea all’Università degli studi di Milano. Mentre dal fronte siriano arrivano notizie di guerra, bombardamenti, morti e popolazioni in fuga, è possibile cercare ulteriori possibili ragioni (se di “ragioni” si può parlare…) della devastante azione bellica decisa dal presidente Recep Tayyp Erdogan in un’area – il Medio Oriente – già instabile e segnata da ogni forma di conflitto, la quale moltiplica tensioni politiche tra gli Stati, e povertà, sofferenze e disagi per le popolazioni.
Ruolo preminente di Ankara. Il Turkic Council non corrisponde a “un sistema di alleanza militare, che non verrebbe ovviamente tollerato da Mosca, ma è un significativo strumento di coordinamento della ‘turchità’ che enfatizza il ruolo centrale della Turchia di Erdogan, sicuramente il più sviluppato e stabile tra i Paesi membri”, prosegue Graglia (nella foto). La presenza di una importante minoranza curda, in Siria, Turchia, Iraq e Iran “rappresenta quindi per Erdogan un problema storico da risolvere in maniera radicale nelle aree in cui può avere mano libera (la Turchia stessa) e in quelle dove è la comunità internazionale, sostanzialmente, a dargliela: Siria e, un domani, magari anche in Iraq”. Il quadro è complesso ed emergono in queste ore il protagonismo politico e la potenza militare di Ankara, oltre alla consolidata avversione verso i curdi: “Questa politica aggressiva di Erdogan ha una doppia faccia – argomenta Graglia –: impedire ai curdi del Rojava, il Kurdistan siriano, di rafforzarsi troppo rappresentando in prospettiva un elemento di attrazione ed esempio per i curdi presenti nel triangolo siriano-iracheno-iraniano. E, nel contempo, ribadire l’intenzione della Turchia di perseguire una politica di normalizzazione dell’area come leader di un’area territoriale che si riconosce nel Consiglio turchico”. In questa situazione “lo sganciamento statunitense dall’impegno nell’area rappresenta ovviamente un palese invito alla Turchia a muoversi più liberamente”.
Europa inefficace. E l’Unione europea? Nel caso dei curdi siriani e dell’aggressione turca alla regione del Rojava “si è mostrata per quello che è: una entità non in grado di fare politica estera ma di esprimere, al massimo, giudizi sul piano etico e morale”, affonda lo studioso di integrazione comunitaria e politica internazionale. “Nel caso dell’aggressione turca l’Ue non poteva fare molto più di quanto ha fatto; molto più significativa è stata peraltro l’azione di governi come quello tedesco, olandese, danese che subito hanno dichiarato la sospensione della vendita di armi alla Turchia, mentre, come è noto, l’Italia ha preferito invocare l’azione europea per poi annunciare un blocco sui contratti futuri e non su quelli esistenti”. Posizione, quella di Roma, che forse potrebbe essere rivista, stando almeno alle ultime dichiarazione del ministro degli Esteri, Luigi Di Maio.
L’Italia decide di non decidere? Il giudizio di Graglia sul ruolo dell’Italia è piuttosto netto: “In questo frangente il governo ha sostanzialmente confermato una caratteristica della politica estera italiana, che affonda le sue radici nel passato anche remoto. Ossia quando tale politica estera ha voluto essere assertiva, lo ha fatto senza preavviso e all’improvviso, spesso stupendo amici e alleati (e altrettanto spesso risultando ininfluente); mentre quando non ha voluto impegnarsi ha sempre tirato in ballo la collegialità (atlantica, europea…). Spero che la timidezza del ministro degli Esteri italiano in questo particolare caso sia solo dovuta a una sorta di ‘blocco del novizio’, perché altrimenti si riproporrebbe il problema di un’Italia che preferisce non decidere e che delega alle dinamiche europee decisioni altrimenti fonte di possibile controversia sul piano interno”.
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