di Francesco Bonini
Era una delle poche cose che non avevamo ancora visto: l’aula di Montecitorio come il set di una telenovela: l’innamorato Flavio ha utilizzato gli stilemi della serialità televisiva per la sua Elisa, mescolando tempi, piani, ambienti, come si confà ad una realtà sbussolata, priva ormai di riferimenti. E sullo stesso scenario tinto di rosa, con l’anello e l’amore che trionfa, poco prima l’ennesima rissa in aula. Non ci stiamo facendo mancare nulla. Salvo che il copione è sempre meno interessante e gli attori sembrano essere sempre meno capaci.
Ecco allora che bisogna interrogarsi. Non è il caso di biasimare i tempi o le situazioni e neppure di stupirsi più di tanto. Né di stigmatizzare un processo di degrado. Del linguaggio come dei comportamenti. Come il linguaggio che usiamo nella vita di tutti i giorni, come quello che si sente in tv o sui social è sempre meno ricco, più volgare, meno controllato, così le azioni su quel particolare palcoscenico che è appunto Montecitorio. È una sorta di legge ferrea: non possiamo stupirci dei nostri rappresentanti senza fare un serio esame di coscienza, personale e collettivo.
E proprio questo è il punto.
Si sprecano le iniziative di formazione, le scuole di formazione all’impegno politico. Il ministero competente ha varato l’ennesima riforma dell’educazione civica, che è diventata una sorta di enciclopedia. Ma gli effetti che misuriamo sembrano suggerire un corto-circuito, quando non ci sia un controllo sociale diffuso sugli standard.
Allora forse bisogna partire da qui, re-investire sulle regole, sulle istituzioni, sulla qualità.
Attenzione, non per moltiplicarle, le regole, come si è purtroppo creduto di fare. Tanto più veniva meno una sorta di consenso di base, tanto più si moltiplicavano le norme. Col risultato che tutto si è giuridicizzato senza effetti tangibili. Non si tratta di moltiplicarle le regole, le norme, gli standard, i livelli di qualità, ma di interiorizzarli.
Non è un percorso facile. Anche perché siamo tutti più soli, più individualisti, e anche un poco più violenti, per effetto di un abbassamento degli orizzonti e del grado di fiducia reciproca.
Per questo le istituzioni servono. Cattivi maestri hanno voluto spiegarci nel Sessantotto e poi nel Settantanove, prima che bisognava bombardare il quartier generale, i sessantottini, e poi che il governo non è la soluzione dei problemi ma il problema, i neo-liberisti. Il combinato disposto di queste due “rivoluzioni” è stato affidare tutto al mercato. Con i risultati che la grande crisi di questi anni ha prodotto. Non solo dal punto di vista economico, ma anche e soprattutto culturale e sociale.
Questa operazione verità è il presupposto per reagire, valorizzare i tanti riferimenti alti e forti che abbiamo e da cui possiamo facilmente ripartire: cultura civica, capitale sociale, principi costituzionali ed esperienze vive di comunità. A patto di essere franchi ed esigenti, molto esigenti sulla qualità. Anche se costa.
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