VATICANO – “Questo io vi chiedo: essere pastori con l’odore delle pecore, pastori in mezzo al proprio gregge, e pescatori di uomini”. Un invito ripetuto due volte, quello del Papa ai 1.600 sacerdoti presenti nella basilica di San Pietro insieme ai cardinali e ai vescovi, esortati nell’omelia della Messa crismale – la prima di Papa Francesco, salutata in chiusura da un caloroso applauso – a uscire da se stessi. Il termine più ricorrente nell’omelia: “periferia”, non solo geografica ma anche “esistenziale”. Come quella che una donna – e solo lei, perché i discepoli, e futuri sacerdoti, si fermano alla “superficialità” – sa vedere con gli “occhi della fede”. “Bisogna uscire”, l’invito del Papa ai sacerdoti, sulla base del verbo che è stato al centro della sua prima udienza generale di ieri: “Nelle periferie dove c’è sofferenza, c’è sangue versato, c’è cecità che desidera vedere, ci sono prigionieri di tanti cattivi padroni”.
Né intermediario, né gestore. “Il sacerdote che esce poco da sé, che unge poco – non dico ‘niente’ perché la nostra gente ci ruba l’unzione, grazie a Dio – si perde il meglio del nostro popolo, quello che è capace di attivare la parte più profonda del suo cuore presbiterale”, ha detto nella parte finale dell’omelia Papa Francesco, secondo il quale “chi non esce da sé, invece di essere mediatore, diventa a poco a poco un intermediario, un gestore”. “Tutti conosciamo la differenza”, ha spiegato: “L’intermediario e il gestore hanno già la loro paga e siccome non mettono in gioco la propria pelle e il proprio cuore, non ricevono un ringraziamento affettuoso, che nasce dal cuore”. Da qui, per il Papa, “deriva l’insoddisfazione di alcuni, che finiscono per essere tristi e trasformati in una sorta di collezionisti di antichità oppure di novità, invece di essere pastori con l’odore delle pecore, pastori in mezzo al proprio gregge, e pescatori di uomini”. “È vero che la cosiddetta crisi di identità sacerdotale ci minaccia tutti e si somma ad una crisi di civiltà”, ha ammesso: “Però, se sappiamo infrangere la sua onda, noi potremo prendere il largo nel nome del Signore e gettare le reti”, per navigare nel “mare del mondo attuale dove vale solo l’unzione, e non la funzione”.
Il “buon sacerdote” e il suo popolo. “Il sacerdote celebra caricandosi sulle spalle il popolo a lui affidato e portando i suoi nomi incisi nel cuore”. Nella parte iniziale dell’omelia, il Papa si è soffermato sull’immagine dell’“olio prezioso che unge il capo di Aronne: non si limita a profumare la sua persona, ma si sparge e raggiunge le periferie”. L’unzione di Gesù “è per i poveri, per i prigionieri, per i malati e per quelli che sono tristi e soli. L’unzione non è per profumare noi stessi e tanto meno perché la conserviamo in un’ampolla, perché l’olio diventerebbe rancido e il cuore amaro”. “Il buon sacerdote si riconosce da come viene unto il suo popolo”. È l’identikit del presbitero tracciato dal Papa, che ha attinto a piene mani dalla sua esperienza pastorale. “Quando la nostra gente viene unta con olio di gioia lo si nota”, ha detto: “Per esempio, quando esce dalla Messa con il volto di chi ha ricevuto una buona notizia”. O “quando il Vangelo che predichiamo giunge alla sua vita quotidiana, quando scende come l’olio di Aronne fino ai bordi della realtà, quando illumina le situazioni limite, le periferie dove il popolo fedele è più esposto all’invasione di quanti vogliono saccheggiare la sua fede”. “La gente – ha testimoniato il Papa – ci ringrazia perché sente che abbiamo pregato con le realtà della sua vita di ogni giorno, le sue pene e le sue gioie, le sue angustie e le sue speranze. E quando sente che il profumo dell’Unto, di Cristo, giunge attraverso di noi, è incoraggiata ad affidarci tutto quello che desidera arrivi al Signore: ‘preghi per me, padre, perché ho questo problema’, ‘mi benedica, preghi per me’”. “Quando siamo in questa relazione con Dio e con il suo popolo e la grazia passa attraverso di noi – ha spiegato il Papa – allora siamo sacerdoti, mediatori tra Dio e gli uomini”.
Il sacerdote deve “intuire e sentire, come sentì il Signore l’angoscia piena di speranza dell’emorroissa quando toccò il lembo del suo mantello”. È un esplicito invito all’empatia, quello rivolto dal Papa ai sacerdoti. Riferendosi al citato brano evangelico, il Papa ha commentato: “Questo momento di Gesù, in mezzo alla gente che lo circondava da tutti i lati, incarna tutta la bellezza di Aronne rivestito sacerdotalmente con l’olio che scende sulle sue vesti. È una bellezza nascosta che risplende solo per quegli occhi pieni di fede della donna che soffriva perdite di sangue”. Il primato, dunque, del femminile: “Gli stessi discepoli, futuri sacerdoti – ha fatto notare infatti il Papa – non riescono a vedere non comprendono: nella periferia esistenziale vedono solo la superficialità della moltitudine che si stringe da tutti i lati fino a soffocare Gesù. Il Signore, al contrario, sente la forza dell’unzione divina che arriva ai bordi del suo mantello”.
La fede? Non è questione di “corsi di autoaiuto”. Nell’omelia, Papa Francesco si è soffermato anche sugli aspetti psicologici della vocazione sacerdotale: “Non è precisamente nelle autoesperienze o nelle introspezioni reiterate che incontriamo il Signore”, ha ammonito: “I corsi di autoaiuto nella vita possono essere utili, però vivere passando da un corso all’altro, di metodo in metodo, porta a diventare pelagiani, a minimizzare il potere della grazia, che si attiva e cresce nella misura in cui, con fede, usciamo a dare noi stessi e a dare il Vangelo agli altri, a dare la poca unzione che abbiamo a coloro che non hanno niente di niente”.
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