“Il tema scelto dal Santo Padre per la Giornata mondiale 2020 è un messaggio di speranza, anzitutto per i malati, ma anche per tutti i credenti e per l’umanità intera”. Ne è convinto don Massimo Angelelli, direttore dell’Ufficio nazionale per la pastorale della salute della Cei. Ieri, 11 febbraio, memoria liturgica della Beata Vergine Maria di Lourdes, XXVIII Giornata mondiale del malato, e Papa Francesco, nel suo messaggio, ha scelto come tema l’invito di Gesù “Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro” (Mt 11,28).
Don Angelelli, come “leggere” questo invito?
Gesù è quell’incontro, quella relazione che ci sostiene nel nostro cammino, e l’invito è a tutti i cristiani a
diventare missionari nei luoghi di sofferenza e difficoltà
per portarvi l’annuncio e la presenza di Gesù e della Chiesa. Questo versetto del Vangelo costituisce una grande opportunità per recuperare la ragione stessa del nostro esistere, segnato dalla fragilità quale condizione antropologica naturale e condivisa. Siamo stati illusi dalla proposta di modelli di superuomini e superdonne in grado di affrontare ogni sfida, in realtà inesistenti perché la fragilità è una condizione esistenziale, e quando essa a causa della malattia si trasforma in vulnerabilità, è arrivato il momento di andare incontro a quella sorgente di sollievo e consolazione che è Gesù. E un’icona relazionale perché invita all’incontro: ad una relazione forte: con Cristo anzitutto, ma anche tra noi perché malattia e sofferenza non devono essere vissute da soli. Solo uscendo da solitudine e isolamento è possibile trovare un senso alle proprie ferite.Qui la comunità cristiana è chiamata a farsi prossimo a chi soffre, a farsi locanda del Buon samaritano.
Relazione quale fondamento di quel “prendersi cura” che va oltre il “curare”?
Il curare inteso come prassi medica per risolvere la patologia non è sufficiente. Le persone hanno bisogno di umanità, sollecitudine, attenzione. Un nodo cruciale oggi in sanità, ma anche nel vissuto di molti medici e infermieri, è l’impossibilità, a causa della mole e dei ritmi di lavoro, di stabilire una relazione con il paziente. Inoltre, i giovani che si preparano ad essere i futuri professionisti della salute non vengono educati alla relazione; per molti anni è stata anzi rimossa la dimensione empatica, viceversa necessaria alla relazione con il paziente. L’operatore sanitario non si pone di fronte ad un organo o ad una malattia, ma ha di fronte una persona. Per questo l’obiettivo dei sistemi e delle strutture di cura non può più essere la mera soluzione della patologia ma la
presa in carico globale della persona.
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