da Vatican News – Michele Raviart

 

Con un colloquio telefonico tra il vicepremier cinese Liu He e il rappresentante per il commercio degli Stati Uniti Robert Lightizer e il segretario al Tesoro Steven Mnuchin, è stato dato il via libera alla cosiddetta “fase 1” dell’accordo commerciale tra Usa e Cina, siglato il 15 gennaio scorso dopo mesi  scontri sui dazi doganali. Un accordo che era sembrato a rischio con lo scoppio della pandemia e le accuse dell’amministrazione Trump sulla presunta responsabilità della Cina nella diffusione e nella gestione del coronavirus.

Le parti hanno ribadito l’impegno a “rafforzare la cooperazione su macroeconomia e salute pubblica, battendosi per creare atmosfera e condizioni favorevoli” al fine di attuare l’accordo, si legge in un comunicato del ministero del commercio cinese. “Nonostante l’attuale emergenza sanitaria globale”, ribadisce l’Ufficio di rappresentanza del commercio Usa, le parti “hanno concordato di rispettare a pieno e secondo quanto stabilito dall’accordo”.

Nei prossimi due anni la Cina si impegna perciò ad importare dagli Stati Uniti 200 miliardi di dollari aggiuntivi in beni e servizi, in aggiunta al volume di scambi del 2017.  Il timore è che le conseguenze economiche della pandemia possano mettere in discussione le capacità di acquisto cinesi, tanto che la scorsa settimana il presidente Trump aveva minacciato di porre fine all’accordo nel caso in cui Pechino non fosse stata in grado di ottemperare agli accordi.

Il rischio che l’intesa salti è infatti “verosimile”, spiega a Vatican News Carlo Filippini, professore emerito di Economia politica all’Università Bocconi e studioso di Asia orientale, “non solo per le difficoltà da parte della Cina di acquistare tutti i beni, anche se bisogna ricordare che la Cina ha ancora adesso le riserve di valute più elevate al mondo e quindi potrebbe tranquillamente comprare quei 200 miliardi di dollari di beni americani su due anni”. Infatti, spiega, “con la crisi economica negli Stati Uniti molte imprese americane non potrebbero fornire i beni che l’accordo commerciale prevede”. In particolare per il professore sono a rischio circa 80 miliardi di dollari d prodotti manifatturieri e 50 miliardi di prodotti energetici, “che però dato il livello bassissimo del prezzo del petrolio, sui 25-30 dollari a barile significa una quantità di prodotti petroliferi ancora più elevati “. Più facile invece fornire i 32 miliardi in prodotti agroalimentari e i circa 40 miliardi di servizi.

Fiduciose, intanto, le reazioni delle borse asiatiche e di quelle europee. “Il problema non è tanto l’applicazione dell’accordo commerciale Stati Uniti-Cina, ma il problema è far ripartire l’economia mondiale”, spiega ancora il professor Filippini.  Negli Stati Uniti “nonostante l’enorme quantità di denaro che il governo americano ha messo in gioco, i disoccupati continuano a crescere. Sul lato europeo abbiamo poi questa lotta interna un po’ fratricida tra gli Stati membri che impedisce di fatto che la crescita venga rilanciata.“ C’è poi”, conclude, “il problema di chi compra i beni perché le imprese non sembrano entusiaste nell’investire e nell’effettuare grandi investimenti e i consumatori sono diventati apparentemente molto prudenti cioè hanno una visione pessimistica del futuro e quindi cercano di consumare di meno e di risparmiare di più”.

 

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