di Alessandro Di Medio
“Come in questo tempo la nostra fede è stata messa alla prova, così non possiamo presumere di saper ‘ritornare in Galilea’ se da questa prova, essa non ne è uscita più coraggiosa, cioè più libera e meno ripiegata su di sé.
Con realismo: per quanto possiamo essere stati ridestati a una maggiore autenticità, come tutti i tempi di prova anche questo della pandemia ha portato in luce pure il male e il peccato di cui siamo impastati e che certamente si ripresenteranno: nelle famiglie non meno che nelle comunità cristiane o nella città.
C’è anche il rischio che per qualcuno ‘tornare in Galilea’ significhi tornare semplicemente a riprendere (in famiglia, in parrocchia, a lavoro) la vita di prima, rimuovendo quel che c’è stato, o senza aver imparato nulla. Ce lo dobbiamo aspettare: chi prima riteneva di vivere già bene, tenderà a voler ritornare alla stessa vita di prima. Per questo occorre che ci aiutiamo a raccontarci quel che è successo, come lo abbiamo vissuto, i sentimenti che abbiamo sperimentato, la forza della preghiera, le speranze e le memorie che sono affiorate, le paure e le angosce, senza rimuovere o disperdere nulla.”
Questo passaggio della lettera che il card. Angelo De Donatis, vicario del Papa per la diocesi di Roma, ha inviato alla Chiesa affidata alla sua cura il 19 aprile 2020 ha anticipato bene i rischi che aprono la “seconda fase” della nostra vita tra la pandemia e la quarantena, indicando al contempo l’unica possibile cura.
Quanto al rischio principale, è molto semplice: la perdita della memoria, e cioè che tutto quanto abbiamo vissuto, sperimentato, provato, subito, superato, compreso, deciso durante la quarantena quaresimale, e poi oltre, nella spoglia Pasqua duemilaventi, vada perduto per la nostra frenesia di riappropriarci dell’abituale, del pre-quarantena, per la patetica smania di reinfilarsi nelle piccole e grandi nevrosi della vita quotidiana come si infilerebbero i piedi in un paio di pantofole brutte e comode.
No, almeno noi Cristiani, se le piaghe che rimangono aperte nel corpo del Risorto hanno per noi un significato, non possiamo permetterlo – altrimenti tutto sarebbe stato invano.
“Riavvolgere il nastro”, tornare indietro, tornare a prima… sono tutte dinamiche opposte alla Pasqua, che è un andare sempre avanti e oltre.
Abbiamo più volte invocato, durante i giorni spaventosi e incerti del picco della pandemia, la necessità di uno sguardo pasquale, che ci rendesse capaci di cogliere la luce che splende nelle tenebre, e le vie che la mano misericordiosa di Dio apre nel mare della confusione e della morte. Abbiamo chiesto questo sguardo, e con la grazia di Dio siamo andati avanti, scoprendo giardini fioriti nel deserto (uno tra tutti, ma ci torneremo, il giardino della “liturgia domestica” nel periodo delle celebrazioni interdette); ora non possiamo semplicemente fare spallucce e fingere che non sia successo niente di che.
Eppure sta già avvenendo: si sta iniziando a dimenticare le mascherine a casa, a fare gli aperitivi con gli amici, a passeggiare spensierati, ad agognare l’estate al mare (e guai a chi ce la nega!)… come nulla fosse, come se la gente si stesse semplicemente lasciando alle spalle un brutto sogno. Qui il problema non è solo il riaccendersi di focolai, ma lo spegnersi di una consapevolezza nuova che stava nascendo, e che andrebbe custodita nella memoria.
Per un paradosso che affonda le sue radici nel peccato originale, di questi giorni strani e importanti forse rimarranno nella memoria dei più solo i traumi e le ferite, i ricordi delle privazioni e le angosce… ma che ne sarà di tutte quelle cose che proprio questa crisi ci ha insegnato a riconoscere come prioritarie, di tutti quei cambiamenti avviati e che non devono ora essere abortiti? Ed ecco la cura che il card. De Donatis ci suggerisce: una narrazione condivisa. Dobbiamo ricordare, rievocare, attualizzare.
Insieme, dobbiamo darci il coraggio e la forza di portare avanti quanto abbiamo compreso e iniziato in ordine a una realtà non semplicemente da “restaurare”, da riportare a come era prima, ma da rinnovare, secondo lo stile fresco e libero dello Spirito Santo, che fa perennemente nuove tutte le cose.
A tal fine, queste mie povere note, inevitabilmente insufficienti per descrivere la complessità dei vari aspetti del presente che vorrebbero nondimeno trattare, termineranno sempre con la proposta di un esercizio per la settimana: se ci manterremo in movimento interiore, se ci faremo scomodare, se proveremo a fare breccia con qualcosa di inusuale nel tram tram che sta già rigenerandosi, forse potremo sperare di portare avanti, nel nuovo presente che ci viene incontro, la fiammella di quanto di meglio abbiamo ricevuto da questa quarantena quaresimale.
In linea con questo bisogno di una narrazione condivisa, l’esercizio che vi propongo per questa settimana è molto semplice: ricordare.
Metti per iscritto su un quaderno tutte le cose che in questi cinquanta giorni di quarantena hai capito di te e del mondo; quelle che la clausura imposta ti ha permesso di riprendere a fare dopo tanto tempo che non le facevi; quelle che in quei giorni hai smesso di fare e che ora non ti mancano.
Ricorda. Scrivi. Custodisci.
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