Haiti rischia di precipitare verso una dittatura o una deriva autoritaria? E’ il timore che serpeggia in queste ore all’interno della società civile dell’isola caraibica, dopo le manifestazioni indette dalle forze di opposizione domenica scorsa, 14 febbraio, nella capitale Port-au-Prince e gli scontri con la polizia che hanno causato un morto, diversi feriti e 23 persone arrestate. Il presidente Jovenel Moïse non ha intenzione di lasciare la guida del Paese, sostenendo che il suo mandato quinquennale scadrà a febbraio 2022 perché è entrato in carica un anno dopo la nomina. Secondo gli oppositori, invece, a norma di Costituzione, il suo mandato si conclude quest’anno.
La crisi politica è molto complessa e profonda: Moïse governa da un anno a colpi di decreti perché non esiste un parlamento. Le elezioni previste per il 2018 sono state rinviate sine die e la popolazione haitiana, già vessata da miseria e malattie, vede il proprio futuro sempre più insicuro e incerto: il 60% vive sotto la soglia della povertà, l’inflazione è altissima, manca cibo e carburante, il Covid-19 ha provocato almeno 2.500 vittime.
La società civile haitiana chiede da tempo le dimissioni del presidente Moïse da due anni, anche in seguito a scandali ed episodi di corruzione. Una settimana fa perfino la Conferenza episcopale haitiana si è espressa con una nota critica nei confronti delle decisioni del presidente, lamentando la difficile situazione generale: “Il Paese è sull’orlo dell’esplosione; la vita quotidiana delle persone è costellata da morte, omicidi, impunità, insicurezza. Il malcontento è ovunque, in quasi tutti gli ambiti”. E’ inoltre in corso un evidente scontro tra Moïse e il potere giudiziario. Il presidente ha fatto arrestare, con l’accusa di aver messo in atto un colpo di stato, Joseph Mécène Jean-Louis, giudice della Corte di Cassazione, individuato dall’opposizione come possibile leader ad interim. Ha poi ordinato il pensionamento forzato di altri tre giudici della Corte.
Un clima di tensione e terrore. “Da ormai due settimane si respira nel Paese un clima di alta tensione e terrore – racconta al Sir da Port-au-Prince Clara Zampaglione, operatrice di Caritas italiana, da due anni ad Haiti -. In molte zone ci sono scontri perpetrati dalle bande armate che spadroneggiano nelle strade della capitale, seminando paura e violenza”. Stati Uniti e Organizzazione degli Stati americani (Osa), sostenitori di Moïse, appoggiano la sua proposta di indire nuove elezioni entro l’anno. Ma l’idea spaventa gli osservatori, perché il Paese è troppo instabile e si rischiano nuove violenze e scontri. Nel frattempo “le scuole rimangono chiuse – prosegue l’operatrice Caritas -, i diritti umani vengono calpestati e la grave instabilità politica amplifica il clima di insicurezza. Inoltre da più di un anno si vive con la paura dei rapimenti a scopo di riscatto, una strategia per alimentare la paura”. Anche i poveri delle bidonville vengono rapiti, non solo i ricchi: “La popolazione è esasperata e ha timore di uscire di casa”.
E ora cosa accadrà? “Ci sono elementi che fanno seriamente pensare ad una svolta autoritaria – conferma Alessandro Cadorin, operatore di Caritas italiana a Port-au-Prince – C’è molta paura e preoccupazione. E’ uno stato di anarchia preoccupante. La sensazione generale è di smarrimento: cosa accadrà?” Caritas italiana è presente ad Haiti dal 2010, l’anno del disastroso terremoto che uccise almeno 230.000 persone. Da allora ha finanziato complessivamente 221 progetti di solidarietà, per un importo di oltre 24 milioni di euro. Si tratta di interventi di accompagnamento alle Caritas locali, di educazione alla cittadinanza, sostegno al reddito e alla sicurezza alimentare di comunità svantaggiate e piccoli agricoltori, per favorire processi di empowerment.
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