di Andrea De Angelis – Vatican News
Sono passati dieci anni dall’inizio della guerra in Siria, uno dei conflitti più sanguinosi di questo secolo, la cui parola fine ancora non è stata scritta sui libri di storia, come non cessano le sofferenze per una popolazione stremata da due lustri in cui ha conosciuto morte, distruzione, fame. Milioni gli sfollati, centinaia di migliaia le vittime. Una terra “amata e martoriata”, come più volte, ancora all’ultimo Angelus domenicale, l’ha definita Papa Francesco nelle numerose occasioni in cui ha pregato ed ha lanciato appelli per la Siria.
L’inizio del conflitto
La data del 15 marzo 2011 segna, dunque, l’inizio di una guerra che da lì a sei mesi avrebbe assunto quei tratti ormai tristemente noti a livello globale. Inizialmente, infatti, le manifestazioni si inserirono nel quadro delle cosiddette “primavere arabe”, ma fu alla fine dell’estate che il conflitto subì una escalation destinata a farlo diventare uno dei peggiori al mondo. Diversi i fattori che l’hanno reso e lo rendono tale, tra i quali il numero di vittime, quello dei Paesi coinvolti e le ripetute violazioni dei diritti umani. Tutto ebbe inizio, dunque, con decine di migliaia di manifestanti, che scesero nelle piazze delle principali città siriane. Chiedevano riforme, maggiori libertà, diritti. Volevano un cambiamento rispetto ai decenni precedenti. Quelli in cui a guidare il Paese fu Hafiz al-Assad (dal 1971 al 2000) e, dopo la morte, il figlio Bashar al-Assad, l’attuale presidente siriano. Quest’ultimo dieci anni fa sembrò sul punto di rispondere positivamente ad alcune delle richieste dei manifestanti, ma poi decise di stroncare ogni forma di protesta.
Ghiath Matar
Per i manifestanti siriani il simbolo di quelle proteste è Ghiath Matar, morto nel settembre 2011 dopo essere stato arrestato assieme ad altri cittadini scesi in piazza. Matar aveva 26 anni, sarto di professione, si definiva pacifista ed è oggi ricordato – anche in un film a lui dedicato – come ‘il piccolo Ghandi’. A Daraya, nei pressi di Damasco, era solito andare incontro ai carri armati del regime offrendo ai soldati bottiglie d’acqua e mazzi di fiori. A chi gli chiedeva il senso di quei gesti, rispondeva che gli uomini in divisa erano siriani, proprio come lui. La sua morte coincide proprio con l’inasprimento del conflitto: dalla fine dell’estate 2011, i siriani combattono tra di loro come mai prima d’ora. Una vera guerra tra insorti e regime: le comunità sociali, economiche e politiche locali si sono scontrate fra loro in una dinamica che potrebbe essere sintetizzata – almeno in parte – come una lotta tra il centro, rappresentato dal potere di Damasco, e la periferia in rivolta.
La Battaglia di Damasco
Le divisioni interne aumenteranno con il passare dei mesi, caratterizzando anche la guerra per tutto il 2012. Si moltiplicano così le defezioni di numerosi soldati regolari siriani, che si uniscono ai ribelli, raggruppandosi nell’Esercito siriano libero. Il Paese passa, con l’inizio del nuovo anno, da manifestazioni e rivolte ad una vera e propria guerra civile, in cui aumentano le repressioni ed i bombardamenti delle forze governative siriane. All’inizio del 2012 i combattimenti raggiungono la capitale Damasco e la seconda città maggiore del Paese, Aleppo. In particolare nel luglio di quell’anno si è combattuta la cosiddetta “Battaglia di Damasco”. I ribelli uccisero quattro alti funzionari del Governo siriano, conquistando diverse aree della capitale. La vincente controffensiva governativa impedì, però, agli stessi di avere la meglio in una battaglia che invece segnò la prima sconfitta dell’Esercito siriano libero. In quelle ore appariva probabile una “transizione di potere”. Furono i giorni in cui la comunità internazionale vide, come mai prima d’ora, vicina la fine politica di Bashar al-Assad. L’anno successivo, però, la situazione si modificherà radicalmente, per poi cambiare nuovamente dodici mesi dopo.
Gli attori esterni
A partire dal 2013 si registra una presenza significativa di attori esterni nel conflitto siriano. Parallelamente, si sviluppa un settarismo sempre più marcato, che culmina nella frattura tra sciiti e sunniti. Il mondo non sta a guardare: da un lato la Russia sostiene il governo di Assad, dall’altro gli Stati Uniti minacciano di attaccare l’esercito siriano se farà uso di armi chimiche, come in occasione delle accuse mosse in tal senso nell’attacco all’area ribelle di Ghuta (settembre 2013). A pagare il prezzo più alto dell’inasprimento dello scontro tra le parti è la popolazione civile: migliaia le vittime ogni mese, ancora di più gli sfollati. I numeri sono, però, destinati ad aumentare con l’entrata in scena dello jihadismo. Nell’agosto 2014, infatti, il sedicente Stato Islamico (IS) proclama la nascita del califfato nella vasta area al confine tra Siria ed Iraq. Sono passati tre anni dall’inizio del conflitto.
La riconquista di Aleppo
La cosiddetta “crisi dei migranti” caratterizza il quinto anno del conflitto in Siria. Il 2015 è anche il momento in cui si intensificano i bombardamenti di attori internazionali contro l’Is. Iniziati nell’autunno del 2014 da una coalizione internazionale formata da Stati Uniti d’America, Giordania, Bahrein, Qatar, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti, proseguiranno per tutto il 2015 ad opera anche di Francia, Regno Unito e Russia. Quest’ultima in particolare nell’ottobre 2015 avvierà un’intensa campagna aerea contro i ribelli, permettendo al governo di Assad di riacquistare terreno in aree chiave del Paese, come la città di Aleppo, dove i ribelli capitoleranno un anno dopo, alla fine del 2016. Il presidente siriano, il cui potere era diventato fragile come non mai, nella seconda metà del 2014 ritrova dunque autorità e forza.
Gli anni successivi
Nel 2018 il governo siriano controllava circa due terzi del territorio, mentre un quarto era in mano ai curdi supportati dagli Stati Uniti. Numeri questi che fanno ben capire come le aree in mano ai ribelli e ai jihadisti siano sempre più esigue. Però comunque presenti, al punto da non poter considerare conclusa una guerra che anche negli ultimi mesi ha registrato scontri e vittime. Inoltre gli eventi più recenti mostrano come a prevalere siano ancora oggi le iniziative di attori esterni rispetto a quelle intraprese dalle comunità politiche autoctone. Si pensi, solo per fare due esempi, all’offensiva turca anti curda ed all’inasprimento del confronto sul territorio siriano tra Israele ed Iran. Senza dimenticare l’avvio dei colloqui inter-siriani mediati dall’Onu per la modifica alla costituzione del Paese. Iniziati nel novembre 2019, lo scorso dicembre i negoziati hanno visto lo svolgimento del quarto round a Ginevra.
I numeri
Dinanzi ad un conflitto così lungo, non è mai semplice avere a disposizione delle cifre univoche per quanto riguardo il numero di morti e di sfollati. Il primo si stima essere ormai superiore alle 300mila unità, di cui oltre la metà già a fine 2015. Gli sfollati sono invece milioni. Quasi un cittadino su due, a partire dal 2011, ha dovuto abbandonare la propria abitazione a causa del conflitto in corso. Si stima, dunque, una cifra vicina a dieci milioni di persone, di cui oltre un terzo costretto a fuggire all’estero. Tra i rifugiati, anche molti cristiani. I bambini vittime del conflitto sono poi un dramma nel dramma: un’intera generazione ha conosciuto bombardamenti e distruzione.
I bambini siriani
Di questa ferita enorme ha parlato Save the Children con il rapporto diffuso la scorsa settimana, intitolato “Ovunque, ma non in Siria”. Nel Paese almeno 2 milioni di bambini sono tagliati fuori dalla scuola ed oltre un milione rischia fortemente di perdere l’istruzione. L’80% della popolazione vive sotto la soglia di povertà e 6,2 milioni di minori hanno buone probabilità di restare senza cibo. Ad oggi, almeno 137mila bambini sotto i cinque anni sono colpiti da malnutrizione acuta. “Solo nel 2020 – si legge nel rapporto – i minori sono stati vittime di migliaia di gravi violazioni nei loro confronti. Sono stati uccisi o sono rimasti gravemente feriti 1.454 bambini. Sono stati registrati, in un solo anno, 157 attacchi armati contro le scuole”. Le preghiere per queste piccole creature sono giunte, in più occasioni, anche da Papa Francesco.
Le preghiere e gli appelli del Papa
Innumerevoli le volte in cui il Papa ha chiesto la fine della guerra in Siria ed ha pregato per i suoi cittadini, per una popolazione appartenente ad una terra “amata e martoriata”. Tra le altre, ricordiamo le parole pronunciate il 28 giugno 2020, quando al termine della recita dell’Angelus, alla vigilia della quarta Conferenza dell’Unione Europea e delle Nazioni Unite per sostenere il futuro della Siria e della regione, Francesco pregò per il popolo siriano, per quelli vicini ed in particolare per i cittadini più piccoli e vittime del conflitto:
Preghiamo per questo importante incontro, perché possa migliorare la drammatica situazione del popolo siriano e dei popoli vicini, in particolare del Libano, nel contesto di gravi crisi socio-politiche ed economiche che la pandemia ha reso ancora più difficili. Pensate che ci sono bambini con la fame, che non hanno da mangiare. Per favore, che i dirigenti siano capaci di fare la pace.
Di recente, anche durante la visita a Bari nel mese di febbraio 2020, in occasione dell’Incontro sul Mediterraneo come frontiera di pace, il Papa ha lanciato un nuovo, accorato appello per la Siria. All’Angelus Francesco ha chiesto che vengano messi da parte calcoli e interessi per salvaguardare le vite dei civili e di tanti bambini innocenti. E come dimenticare poi le preoccupazioni e le richieste concrete contenute in una lettera che il Papa ha voluto indirizzare al presidente siriano Bashar Hafez al-Assad nell’estate del 2019, in cui lo incoraggiava a mostrare buona volontà per sanare una situazione disastrosa, preservando civili inermi e le principali infrastrutture, come scuole e ospedali.
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