“Una consolazione nazionale, psicologica e spirituale, che ha dato al nostro popolo un sollievo, la speranza di non essere dimenticati”. Così mons. Raphaël François Minassian, arcivescovo per gli armeni dell’Europa dell’Est, commenta al Sir il pensiero che, nella sua benedizione urbi et orbi a Pasqua, Papa Francesco ha rivolto anche al Nagorno-Karabakh, citato tra i Paesi feriti dalla “mentalità della guerra”. Il 2020 è stato un anno difficile per l’Armenia: il Paese non solo ha dovuto confrontarsi con la pandemia, ma ha anche fronteggiato una guerra nel Nagorno-Karabakh, che l’ha vista sconfitta contro l’avversario azero con importanti conseguenze nel sistema sociopolitico interno. In seguito a sei settimane di combattimenti, il 10 novembre scorso, a Mosca e sotto l’egida del presidente Vladimir Putin, il primo ministro armeno Nikol Pashinyan ed il presidente azero Ilham Aliyev hanno firmato un accordo che ha però spezzato la piccola regione del Nagorno, con una “spartizione” del territorio che ha reso la zona ancora più fragile e povera.
“Sono tante le famiglie che soffrono per la mancanza dei loro figli”, dice il vescovo Minassian, portando subito l’attenzione sul grave problema, ancora non risolto, dei prigionieri. Oltre ai soldati presi durante la guerra, sono state catturate persone rimaste nelle zone consegnate all’Azerbaigian a protezione e difesa delle proprietà. Il vescovo parla di almeno 64 persone. “Sono state prese e torturate con l’accusa di essere terroristi. Ma se erano terroristi, perché alcuni di questi prigionieri li hanno liberati?”.
Mentre le diplomazie sedevano attorno ad un tavolo per ripartirsi il territorio, su quella “cartina geografica”, le decisioni prese hanno pesato per sempre sulla vita e sul futuro di intere famiglie costringendole a lasciare case e villaggi per trovare rifugio in Armenia. Il flusso dei profughi in fuga dal Nagorno è l’altra faccia della guerra. Attualmente i rifugiati si trovano divisi in tre parti dell’Armenia: sono andati a Goris, città che si trova vicino al Nagorno; la maggioranza ha trovato rifugio ad Ardashad, la città in cui si trova la Grotta dove fu tenuto prigioniero San Gregorio l’Illuminatore, l’apostolo che portò il cristianesimo in questa Regione; gli altri hanno preferito dirigersi direttamente nella capitale armena di Yerevan.“Noi, come chiesa locale, stiamo condividendo la loro povertà. In questi mesi, come Caritas abbiamo aiutato 14 mila famiglie”, racconta il vescovo.
“Il nostro è stato un aiuto a più livelli: abbiamo sostenuto queste famiglie pagando l’affitto delle case in cui si erano rifugiate; stiamo dando aiuti alimentari e di assistenza medica; e in particolare stiamo seguendo madri con bambini neonati. Dipende dalla situazione. La maggior parte di queste famiglie sono divise tra chi è rimasto a difesa delle case nelle zone consegnate all’Azerbaigian e chi è scappato. C’è una grande confusione e in questa situazione, è difficile capire se è meglio tornare indietro o rimanere in Armenia. Quello che ora ci preoccupa è che stanno diminuendo gli aiuti che ci arrivano dall’estero”.
L’accordo siglato a Mosca ha portato al sollevarsi di manifestazioni antigovernative a Yerevan. “La divisione interna c’era prima della guerra e si è aggravata durante la guerra”, commenta sconsolato il vescovo Minassian che però guarda con speranza alle elezioni indette dal primo ministro armeno per il 20 giugno. “Speriamo che le elezioni riescano a riportare in Armenia quell’equilibrio interno che le serve per fronteggiare le crisi e riconciliare le diverse parti, per il bene comune delle Nazione”.“Trovare una forza di coesione interna è necessario anche per affrontare quel gioco poco chiaro che le potenze internazionali stanno facendo sulla piazza armena inseguendo interessi ed egoismi che certo, non hanno a cuore il destino del nostro popolo”.A Pasqua il Papa ha parlato contro la “mentalità della guerra”. “La guerra – osserva mons. Minassian – è l’espressione della debolezza mentale dell’uomo. È il fallimento della comprensione reciproca, la rottura dei canali di dialogo, l’impotenza della diplomazia, la negazione del rispetto del diritto del vicino. È solo nel confronto, pacifico e lontano dagli interessi, che è possibile trovare soluzioni di pace. Il fallimento di questa via conduce inesorabilmente al conflitto armato”. Il vescovo unisce quindi la sua voce al grido di pace lanciato da Papa Francesco. “L’Armenia non è povera. E’ ricca di risorse naturali, di storia e di cultura. Ma è soffocata perché non ha finestre all’esterno.Non dimenticatevi di noi. Apriteci le porte. Se ci sono orecchie per sentire, ascoltateci. Se ci sono cuori aperti ad accogliere le nostre preghiere, mettete in moto la volontà di fare”.
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